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Gita a Roma

di Gianluca Fiore

Il racconto della domenica

Roma, Belvedere del Pincio. Da quassù la città non è solo bellissima, è magnetica. Cupole di chiese, qualche lenzuolo steso al sole, coppi e terrazzi, pergolati si susseguono gli uni dopo gli altri. E ti abbracciano.
Appena sotto di me il traffico che migra verso il Muro Torto si muove lento, e un po’ scoglionato. Qualche timido accenno di strombazzata, neanche tanto deciso, fa capire che la giornata è finita e la gente ha voglia solo di tonare a casa. Anche il sole sembra esitare, e prolunga questo momento di luce morbida che smussa gli spigoli, e anche gli animi.
Guardo verso l’ingresso di Via del Corso… cavolo, ma quella è la mia macchina! Un carro attrezzi la sta portando via! E ora cosa faccio? Rifletto un attimo, cerco di ricordarmi le scorciatoie che da ragazzini usavamo per le scorribande. Uno sforzo immane, per uno di sessant’anni. Mi ricordo una discesa che si prendeva dietro una quercia.
Mi lancio verso quella direzione di corsa, giù in discesa. Per fortuna il sentiero esiste ancora, non ci avrei giurato per niente, dopo tutti questi anni. Ora è asfaltato, meglio ancora. Vado veloce, anche troppo, devo fermarli prima che sia troppo tardi. Urto una suora che somiglia a Madre Teresa di Calcutta che va a gambe all’aria dentro una fontanella, grido mi dispiace sorella è un’emergenza ma quella mi risponde in una lingua strana. Curva, controcurva. La ghiaia mi fa perdere aderenza, ecco ora faccio il capitombolo della vita invece no, vado a finire contro un marocchino addobbato con accendini, torce, miniventilatori, portachiavi e chissà cos’altro. Mi rialzo, sto perdendo terreno, rischio di non intercettare il carro attrezzi. Esco in Piazza del Popolo sudato, sporco ed esausto. Arrivo con le ultime forze a urlare fermati porca vacca non puoi andare via!
Il tipo alla guida si ferma e scende, dai che forse è la mia giornata fortunata. Fa per dire qualcosa ma io non lo degno di uno sguardo, salgo sul pianale, faccio scattare la serratura della mia macchina e entro dentro.
Lei mi guarda. Nenche se ne era accorta, ‘sta bastarda. Dormiva, forse russava, sul sedile posteriore. Si alza, una bella sgrullata. Scodinzola, magari pensa che è ora di cena. Le metto il guinzaglio, la prendo in braccio, recupero il mio laptop e scendo giù.
Il vigile mi guarda e mi fa aho’ ma che c’avevi lasciato er cane? Io lo fulmino con un’occhiata che avrebbe squagliato un tondino di ferro. La prossima volta guardate cosa c’è dentro le macchine che prelevate, piuttosto!
Metto giù il cane, che tanto per farsi notare ringhia al vigile. Minimo sindacale. E mo’ che famo con la machina, dotto’? Mi fa il guidatore del carroattrezzi. Fateci quello che volete, ora. Io me ne torno a casa col mio cane.
Me ne vado, e ripercorro la strada che avevo fatto qualche minuto prima. Per terra i segni del mio passaggio. Qualche portachiavi del marocchino vicino a un platano, un rosario abbandonato sul bordo della fontanella. Faccio salire il cane sul parapetto del Belvedere, per fortuna il sole non è ancora tramontato. Ce lo godiamo, io e lei. Una leccata dichiara che il peggio è passato.
Guardiamo lontano, dove il Tevere bacia Castel Sant’Angelo. Questa città è uno spettacolo.

Racconto di Gianluca Fiore (www.ilcavedio.org)

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Pubblicato il 09 Luglio 2023
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