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“Dopo di lui toccherà alla vecchia”. Quando la “mantide” e il suo amante parlavano dell’omicidio di Ravasio

Davanti alla Corte d'Assise di Busto Arsizio le dichiarazioni di Fabio Lavezzo, compagno di una delle figlie della "mantide", che avrebbe dovuto dare il via al piano omicidiario fingendo un'inversione di marcia con il suo furgone

Generico 05 May 2025

Adilma che parlando di Fabio Ravasio dice che «lo deve fare fuori», Massimo Ferretti – all’epoca suo amante – che pronuncia frasi come “Un giorno vedrete me guidare la BMW” riferendosi alla macchina di Ravasio, oppure “Dopo di lui toccherà anche alla vecchia”, parlando della madre. Uno come l’altro, come tessere di un domino, continuano a parlare davanti alla Corte d’Assise di Busto Arsizio gli imputati a processo insieme ad Adilma Pereira Carneiro, la “mantide di Parabiago”, per l’omicidio di Fabio Ravasio, 52enne di Parabiago, ucciso lo scorso 9 agosto in un agguato orchestrato in modo da far credere che l’uomo fosse stato investito da un pirata della strada poi datosi alla fuga.

Lavezzo: “Non dando il segnale ero convinto di poter evitare che Ravasio venisse investito”

Lunedì 5 maggio a scegliere di rendere spontanee dichiarazioni davanti alla Corte presieduta da Giuseppe Fazio (a latere Marco Montanari) è stato Fabio Lavezzo, compagno di una delle figlie della “mantide”, che il giorno in cui la vita di Fabio Ravasio è finita sull’asfalto della provinciale tra Busto Garolfo e Parabiago avrebbe dovuto dare il via al piano omicidiario fingendo un’inversione di marcia con il suo furgone. «Adilma, oltre a mettere in cattiva luce Fabio, manifestò astio anche nei confronti dei suoi genitori, i quali a suo dire stavano ostacolando l’acquisto di una cascina a San Lorenzo di Parabiago, dove voleva trasferirsi con tutti i figli e realizzare una pensione-ricovero per animali – ha raccontato in aula Lavezzo -. In più di un’occasione Adilma, parlando di Ravasio, diceva che lo doveva fare fuori. Mi sembravano inizialmente frasi senza senso, frasi dette per esagerazione, e mi è capitato di chiederle per quale motivo non lo lasciasse. Ma la risposta di Adilma era che avendo affari insieme ed essendo soci, non le sarebbe convenuto. Ravasio, peraltro, secondo Adilma, non avrebbe mai accettato la fine della loro relazione».

«In altri momenti ho sentito anche Ferretti al bar dire frasi tipo “Un giorno vedrete me guidare la BMW”, riferendosi alla macchina di Ravasio – ha aggiunto -, oppure “Dopo di lui toccherà anche alla vecchia”, lasciando intendere che ci fosse da parte sua l’intenzione non solo di sostituirsi a Fabio Ravasio nel rapporto con Adilma, ma anche quella di eliminare la signora Trentarossi (la madre di Fabio Ravasio, ndr). Avevano in mente, Adilma e Ferretti, di investirlo simulando un incidente stradale».

Poi la ricostruzione di quel maledetto 9 agosto, quando a poche ore dall’omicidio Lavezzo viene coinvolto nel piano della “mantide” e della sua banda. «Mi è stato chiesto di contribuire, da lì a poche ore, a dare il segnale del passaggio in bici di Ravasio. Ferretti, lo stesso giorno, nel suo bar, indicò a Piazza, per quanto ne so, di posizionarsi sulle panchine dei giardinetti davanti al cimitero di Casorezzo e a me assegnò il compito specifico di mettermi con il furgone sulla curva, subito dopo il cimitero, in direzione di Parabiago: al passaggio di Ravasio in bicicletta, avrei dovuto fingere di fare un’inversione di marcia con il mio furgone allo scopo di bloccare il traffico. La manovra sarebbe servita da segnale per Igor Benedito e Marcello Trifone che erano appostati a bordo della Opel Corsa, che dalla loro posizione avrebbero potuto chiaramente vedere della mia manovra».

Su quella curva Fabio Lavezzo effettivamente ci si posizionerà con il suo furgone. Ma, dopo essere stato raggiunto da Adilma Pereira Carneiro che lo invitava a tornare più tardi «per non destare sospetti», secondo quanto riferito in aula se ne andrà e non vi farà più ritorno. «Allontanandomi e non dando il segnale del passaggio di Fabio Ravasio in bicicletta, ero convinto di poter evitare che venisse investito», ha spiegato davanti alla Corte d’Assise. Il suo “forfait”, però, non basterà a fermare l’omicidio, lui stesso scoprirà poche ore dopo entrando nel cortile della casa di via delle Orchidee e vedendo «la Opel Corsa con il tetto e i vetri sfondati». «In quel momento mi si gelò il sangue e mi resi conto che Fabio Ravasio era stato comunque investito, malgrado il mio tentativo di evitare l’azione – ha ricordato l’imputato -. Con il senno di poi ho compreso che non solo mi dovevo allontanare, così come ho fatto, dalla posizione che mi era stata assegnata, ma avrei dovuto anche allertare le forze dell’ordine. Purtroppo non l’ho fatto e me ne dispiaccio».

Leda Mocchetti
leda.mocchetti@legnanonews.com
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Pubblicato il 05 Maggio 2025
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