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Lezione di legalità con l’imprenditore che si è ribellato a Cosa Nostra

Gianluca Calì ha incontrato i genitori e i cittadini nell'auditorium della scuola di via Montessori

Lo Stato, i Comuni e i semplici cittadini non devono lasciare soli gli imprenditori che hanno deciso di ribellarsi alla criminalità organizzata e dovrebbero, anzi, aiutarli a ricominciare dopo i momenti di difficoltà dovuti alla loro coraggiosa scelta. È questo il messaggio lanciato da Gianluca Calì, imprenditore palermitano che ha deciso di combattere Cosa Nostra, che è stato l'ospite della conferenza che si è svolta nel tardo pomeriggio di giovedì 12 gennaio nell'auditorium della scuola primaria "Montessori" per la rassegna "Diritti diversi, diversi diritti", organizzata dai tre istituti comprensivi di Bollate in collaborazione con l'assessorato alle Politiche educative.

L'imprenditore ha raccontato la sua tormentata vicenda, ormai iniziata qualche anno fa, e la sua scelta di legalità che ha delle radici davvero salde. "Casteldaccia, il mio paese d'origine, insieme ad Altavilla e Bagheria vide oltre cento morti ammazzati nei primi anni Ottanta. Vennero uccisi tutti i mafiosi che stavano contrastando l'ascesa di Totò Riina durante la seconda guerra di mafia. Proprio a Casteldaccia, inoltre, fu registrato uno dei più gravi attacco allo Stato quando, davanti alla Stazione dei Carabinieri, venne fatta ritrovare una Fiat 127 che aveva nel baule due cadaveri incaprettati, quelli di un operaio e di un ex meccanico. I militari vennero avvisati da una telefonata. Al liceo poi, durante una conferenza, conobbi il giudice Gioacchino Natoli ed ebbi l'impressione di avere davanti a me una persona normale che faceva il suo dovere. La scossa più grande mi venne, però, nel marzo 1992 grazie alla partecipazione a un incontro durante il quale venne scattata la celebre fotografia che ritrae i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino mentre si parlano. Dopo aver visto le loro morti mi promisi che avrei sempre fatto il mio dovere di cittadino, per permettere alle loro idee di camminare ancora".

Calì ha poi raccontato come Cosa Nostra si è avvicinata a lui e alla sua impresa. "Nel 2002 venni in Lombardia e divenni uno dei venditori di un importante concessionaria. Nel 2008, poi, decisi di mettermi in proprio creando una società che comprava automobili in Lombardia per rivenderle, insieme a mio fratello, a Palermo. Nel 2010 arrivammo a vendere anche trenta veicoli al giorno e il mio ex datore di lavoro volle acquistare delle quote della nostra società. Mi chiese se ci sarebbero stati dei problemi a effettuare un investimento in Sicilia, ma gli risposi di no. Nel settembre 2010, poi, presentai un'offerta per acquistare dal Tribunale una villa sul mare a Palermo, che volevo trasformare in una casa vacanze. Subito mi chiesero di farmi da parte e iniziarono le minacce, gli attentati e gli avvicinamenti. Nel marzo 2011 festeggiammo l'inaugurazione della nuova concessionaria e poco dopo, due ventenni incappucciati, diedero fuoco alle automobili coinvolgendo anche la facciata di un palazzo alto cinque piani. Arrivai subito sul posto e vidi centinaia di persone con le braccia conserte che osservavano la scena. Nessuno fece nulla e fui io a chiedere l'intervento dei Vigili del fuoco. Nei periodi successivi proseguirono le minacce e informai subito le forze dell'ordine. Due pentiti confermarono che le minacce arrivavano dal capo mafia del mio paese. Venni poi a scoprire che la villa che avevo acquistato dal Tribunale era appartenuta a Michele Greco, noto esponente di Cosa Nostra. Avrei voluto tirarmi indietro, ma gli agenti di Polizia mi convinsero a non rinunciare a quella casa e iniziai la sua ristrutturazione".

La vita di Calì, a quel punto, venne seriamente minacciata. "Nel luglio 2011 – ha raccontato l'imprenditore – un mafioso venne in autosalone e parlò con mio fratello. Andammo immediatamente dai poliziotti di Bagheria e gli raccontammo tutto. Non diedero però peso all'episodio perché consideravano quel personaggio un esaltato. Andai allora dai Carabinieri, che lo arrestarono nel 2014. Confessò di aver commesso più di quaranta omicidi. Nel 2013, poi, la casa acquistata dal Tribunale venne sequestrata dal Corpo forestale e venni denunciato per abusivismo edilizio. Qualche tempo dopo quel corpo venne azzerato da quattro arresti per corruzione. Le intimidazioni, nel frattempo, proseguirono. Avvicinarono per errore un mio venditore e io lanciai, grazie a un cartello, un invito ai cittadini a chiamare il 112, il 113 o il 115 qualora avessero notato qualcosa di insolito. Per la criminalità organizzata il pagamento del pizzo ha un senso romantico come il pagamento degli avvocati o il mantenimento delle famiglie dei mafiosi arrestati. I miei soldi, però, sarebbero stati utilizzati per comprare armi o droga e distruggere la mia meravigliosa terra. Prima si avvicinano ai tuoi cari, poi chiedono materiale o manodopera senza pagarla. Altre volte invece, quando vedono che sei al loro soldo, chiedono un contributo volontario, la dominazione del malaffare. Capita spesso che chiedono anche di vendere i loro prodotti, spesso più cari e di pessima qualità. Il vero colpo di grazia, però, arriva quando ti prestano i soldi per pagare i fornitori e con l'inizio del circolo dell'usura che si conclude solo con la cessione dell'attività o facendoti diventare il loro corriere della droga. Se avessi compiuto questi errori non avrei più potuto guardarmi allo specchio in maniera serena".

Il resto è storia recente: "Incontrai Francesco Totti e mi diedero l'Hummer che avevano sequestrato a Massimo Ciancimino. I mafiosi, però, avevano sparso la voce che fossi un narcotrafficante. Lo scorso 31 dicembre ho dovuto licenziare gli ultimi due dipendenti e il fatturato è sceso a un milione di euro. Nel periodo di massimo splendore avevo 24 dipendenti e un fatturato da oltre 20 milioni di euro. Nel gennaio di un anno fa, inoltre, la rappresentante di classe della scuola frequentata dai miei figli chiese al dirigente scolastico di farli uscire, per la sicurezza di tutti gli altri alunni, da un'uscita secondaria. Le minacce, nel frattempo, sono proseguite e hanno toccato anche mia moglie" ha raccontato l'imprenditore. Calì, però, continua la sua lotta al crimine organizzato: "Fare finta di nulla o non scegliere è una scelta sbagliata. Loro vivono e crescono sul nostro silenzio e sulla nostra omertà. Dobbiamo sconfiggere il mafioso che c'è in ognuno di noi, che si manifesta quando non richiediamo lo scontrino o parcheggiamo male, e innamorarci della legalità. La mia battaglia è quella di chi crede nel riscatto del Sud verso l'Italia e il mondo intero. Dovranno lasciare libera la mia terra, in memoria di chi ha lottato per questo nel passato. Noi siamo il paese della Ferrari, di Michelangelo e di tante altre eccellenze, non solo quello della mafia".

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Pubblicato il 13 Gennaio 2017
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