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Le “varesine” e il viaggio senza carbone né fumo da Milano ai laghi

Nel 1901 debuttarono i primi treni elettrici d'Italia, destinati al turismo ma anche a sostenere l'industria dell'Alto Milanese. Le "varesine" adottavano il sistema a terza rotaia elettrificata: innovativo ma pericoloso, durò mezzo secolo esatto, fino al 24 marzo 1951

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Agli occhi di un ricco milanese d’inizio Novecento o a quelli di un pastorello di Arcisate, quei treni dovevano sembrare un prodigio quasi incredibile. Non c’era fumo, né vapore: le carrozze erano mosse da un’energia invisibile, quella dell’elettricità.

Erano le “varesine”, tra i primissimi treni elettrici in Italia: l’energia che li muoveva veniva da una terza rotaia a fianco delle due che guidavano le ruote, una terza rotaia dove passava elettricità a 650 Volt. Un sistema allora modernissimo, ma che certo era rischioso e che per questa ragione fu poi eliminato: durò mezzo secolo, fino alla disattivazione completa il 24 marzo 1951, esattamente settant’anni fa.

Agli albori dell’elettricità, non era chiaro come impiegare la forza del “carbon bianco” applicata ai treni: era meglio portare l’elettricità a bordo dei vagoni o creare una linea elettrica da cui la locomotiva avrebbe preso la corrente necessaria a muovere il convoglio? All’inizio si decise (o meglio: decise una Commissione statale) di sperimentare entrambi i sistemi, sulle due reti principali che gestivano le ferrovie italiane, vale a dire la Rete Mediterranea e la Rete Adriatica.

I treni a batteria – anzi: ad accumulatori – furono provati sulla ferrovia MilanoMonza e su una breve tratta nei dintorni di Bologna, mentre quelli che prendevano elettricità da una linea che correva parallela al binario furono sperimentati appunto sulla Milano-Legnano-Varese-Porto Ceresio. Le cartoline commemorative li definirono dunque “treni a terza rotaja”, con la j  semiconsonante che si usava allora.

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La stazione di Varese nel 1905, con i nuovissimi treni elettrici “a terza rotaia”. Foto dal sito photorail.it

Per le ferrovie l’elettricità era motivo di vanto.E quale migliore pubblicità dell’uso sulle linee più prestigiose?
Ecco perché si scelse la linea per Varese e il Ceresio
: una zona di villeggiatura dei milanesi (soprattutto borghesi) che stavano edificando già ville sui verdi colli e con la vista sui cerulei specchi lacustri. In più c’era un altro vantaggio: per arrivare a Varese bisognava passare dall’Alto Milanese, la zona di Legnano, Busto e Gallarate che era una delle poche aree in provincia dove c’era una concentrazione industriale, con la necessità di spostare materie prime per gli opifici, prodotti da inviare verso le città. E ancora operai specializzati e tecnici, che spesso facevano la spola tra più stabilimenti.

L’energia elettrica veniva da una centrale a Tornavento di Lonate Pozzolo, ma più tardi invece la linea fu collegata alla centrale idroelettrica di Varzo, in Ossola, a quasi 150 km da Milano. La corrente arrivava ad alta tensione e veniva convertita a 650 volt in apposite “sottostazioni di trasformazione” lungo la linea, in alcuni casi ancora riconoscibili, come nel caso di quella di Parabiago che alimentava la sezione tra Milano e Legnano.

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I ruderi della “sottostazione” di Parabiago, vicino alla stazione e al canale Villoresi. L’elettrificazione creò anche una nuova aristocrazia operaia di operai specializzati che si occupavano degli impianti

I treni delle “varesine” e il turismo belle epoque sui laghi

Il sistema dei treni a batteria non ebbe molto successo, ma i treni sì.
Già la prima Guida Rossa del Touring Club, uscita nel 1914, consigliava di andare a Varese usando la ferrovia per Porto Ceresio, nel frattempo passata alle Fs dal 1905. La linea doveva esser «preferita alla Nord perché più confortevole il materiale (i treni, ndr) e più rapida», grazie alla trazione elettrica.

Non c’era più la fumigante vaporiera a sporcar di ceneri e fuliggine i vestiti candidi delle signore milanesi: si andava alla stazione Centrale fuori dai bastioni di Porta Venezia (attuale piazza Repubblica) e si cercavano i binari dei treni per Varese, senza avvicinarsi troppo alle ansimanti locomotive nere. E il numero di corse da Milano alle Prealpi di Varese – venti treni al giorno e più! – rendeva comodo il viaggio anche per brevi soggiorni.

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Il ponte della ferrovia che esisteva fino al 1931 tra via Galilei e via Fabio Filzi a Milano, mentre sulla strada passa un tram (sullo sfondo la chiesa di San Gioachimo). La grande scritta segnala i moderni treni elettrici: curiosamente anziché Varese viene indicato come riferimento Gallarate, stazione di diramazione

Lungo la ferrovia si moltiplicarono anche le ville di campagna, facendo la fortuna di paesi che a volte erano già da secoli luogo di villeggiatura. Così a Gazzada alla cinquecentesca, ricca villa Cagnola si aggiunse per esempio la neogotica Villa De Strens, completata – guarda a caso – pochi anni dopo l’entrata in servizio dei treni elettrici che avevano accorciato il viaggio da Milano. In Valceresio alle nobiliari ville Porro Pirelli a Induno e villa Cicogna Mozzoni a Bisuschio si aggiunsero nuove ville borghesi.

Persino i capifamiglia potevano permettersi di far la spola tra la città e i monti varesini. Nel giro di pochi anni – dal 1906 – i villeggianti potevano arrivare anche nel piccolo mondo della Valganna, con il “tramino” elettrico dalle bianche vetture, che attendeva la coincidenza a Varese e portava anche a Luino e Ponte Tresa. Ma le nuove ville di gusto neogotico e neoromanico, con le loro torrette, proliferavano anche nell’allora verdissima Valdarno, a Castronno, ad Albizzate: insieme alle immagini delle stazioni, facevano capolino nelle cartoline dei paesi, simbolo di modernità e buon gusto.

Il “carbon bianco” e la modernità, da Milano a Napoli

Il sistema a terza rotaia a 650 Volt si era dimostrato pienamente funzionale, tanto che le Fs decisero di usarlo anche all’altro capo d’Italia, in un’altra opera che aveva del miracoloso, la ferrovia metropolitana di Napoli, la prima attivata in Italia, nel 1925, con quattro stazioni sotterranee nel centro della città partenopea.

Le Fs introdussero poi nuove motrici in grado di superare i 100km/h e anche locomotive  che tra Milano e Gallarate trainavano anche i convogli internazionali, che poi proseguivano con locomotiva a vapore verso il Sempione. A Gallarate, dal 1905, era stata installata anche l’officina principale di manutenzione dei treni, che contribuì a sua volta all’industria della zona, visto che dava lavoro a centinaia di operai specializzati.

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La locomotiva E321 era impiegata sia sulle linee varesine che sulla linea sotterranea di Napoli. L’esemplare ritratto è quello conservato al Museo Scienza e Tecnologia di Milano

Pochi anni dopo, nel 1931, a Milano s’inaugurò la nuova stazione Centrale. Quella vecchia fu smantellata e rimase solo un’ala secondaria dell’edificio, a servizio solo dei treni per Varese: prese il nome di stazione di Milano Porta Nuova, anche se tutti presero a chiamarla più familiarmente per quel che era, la «stazione delle varesine».

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La stazione di Milano Porta Nuova negli anni Cinquanta. A fianco della pubblicità del dentifricio Chlorodont si vede l’indicazione a caratteri cubitali “Linee Varesine”

“Chi tocca muore”: un sistema non inquinante ma pericoloso

Nel frattempo in Italia si era già iniziato a sperimentare anche altre forme di elettrificazione delle ferrovie, basate non più una linea a terra, ma su una linea aerea, vale a dire con il cavo che sta sopra i treni, come avviene oggi: il sistema divenne quello preferito. Negli anni Trenta sui quotidiani si scriveva che “l’uso della terza rotaia doveva essere, per ragioni di sicurezza, limitato alle basse tensioni e non poteva avere estese applicazioni”.

“Muore chi tocca la rotaia più alta”, dicevano le indicazioni accompagnate da evidenti teschi che mettevano in guardia dal pericolo. Isolata da terra su appositi supporti in ceramica gres, la terza rotaia diventava mortale se la si toccava: nelle stazioni era coperta da protezioni in legno, ma le tragedie furono numerose. Se ne trova traccia nelle pagine dei giornali: “Soldato vittima a Gallarate d’una violenta scarica elettrica”, titolava ad esempio la Stampa il 4 febbraio 1941, raccontando la sfortunata imprudenza di tal Guido Zambon, che – “proveniente da Trieste e diretto a Sesto Calende” ed “evidentemente ignaro del pericolo costituito dalla terza rotaia”aveva toccato l’acciaio percorso da elettricità a 650 Volt.

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La terza rotaia ricostruita al Museo Nazionale delle Ferrovie a Pietrarsa, nei dintorni di Napoli

Dopo la Seconda Guerra Mondiale si decise di elettrificare anche la linea Milano-Domodossola (1947), ma questa volta con il più moderno sistema a 3000 Volt, quello in uso ancora oggi.
Fino a Gallarate i due sistemi finirono a convivere per ben quattro anni, prima che fosse completata la conversione al nuovo sistema sulla linea per Varese e Porto Ceresio: la pericolosa terza rotaia fu disattivata il 24 di marzo 1951.

Furono proprio le Officine di Gallarate di via Pacinotti ad occuparsi, in quegli anni, degli impegnativi lavori per trasformare i treni dal vecchio al nuovo sistema, un incarico di cui i veterani tra gli operai gallaratesi andavano orgogliosi, perché i lavori erano tutti fatti in casa FS ed erano molto complessi.

officine fs cartello (per gallerie fotografiche)
Il “reparto aggiustaggio” delle Officine di Gallarate: è una delle parti che risale alle origini, al 1905. Le officine chiusero nel 1997 e oggi sono in abbandono (la foto è del 2010)

Le varesine: un nome che ritorna

Le motrici ricostruite negli anni Cinquanta cambiarono numerazione (la “targa” del treno), ma rimase il soprannome: per trent’anni fecero servizio intorno a Milano, sulle linee della zona e poi soprattutto verso Novara, Piacenza, la Lomellina, ma rimasero sempre “le varesine”. Adesso la Fondazione FS – che si occupa della tutela del patrimonio storico FS – le sta restaurando per farle circolare come treno d’epoca.

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L’interno della motrice E623 restaurata

C’è però un altro uso del nome che ci porta fino ai giorni nostri: è quello della “stazione delle varesine” a Milano, sopravvissuta per trent’anni, dal 1931 al 1961, quando i binari furono accorciati alla zona Porta Garibaldi, con l’apertura della stazione che frequentano migliaia di pendolari milanesi di oggi. Lo spazio occupato dalla vecchia stazione rimase incolto e per decenni ospitò un luna park che tutti conoscevano, appunto, come “le varesine”.

Fine della storia? Quasi: perché poi il nome – ultima mutazione – è passato alla società immobiliare che ha curato l’edificazione della zona, negli anni Duemila. Oggi ci sono grattacieli e forse il termine varesine è arrivato al capolinea: fine corsa, davvero.

 

Fonti e bibliografia:
Alessandro Albè, Le “Varesine”. L’avventura della terza rotaia in Italia dal 1900 al 1950. Le esperienze estere, Torino, Elledi, 1986
Giovanni Cornolò,
Automotrici elettriche dalle origini al 1983, Duegi Editrice, 2011
I siti
photorail.it e stagniweb.it
Archivio online La Stampa

 

 

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it
Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare.
Pubblicato il 24 Marzo 2021
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