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Il giorno e la storia – Candido Poli nel lager di Mauthausen

Candido venne inviato al carcere di San Vittore a Milano e condannato a morte per fucilazione, condanna che grazie all’intercessione del cardinale Ildefonso Schuster venne commutata in 28 anni di lavori forzati

Il giorno e la storia, mese di gennaio

4 gennaio 1944 – Candido Poli, sopravvissuto ai lager di Mauthausen, Dachau, Bernau

Candido Poli era un giovane operaio socialista della Franco Tosi che aveva lasciato Legnano per unirsi alle formazioni partigiane cattoliche “Alfredo Di Dio” della Val d’Ossola. La notte del 4 gennaio 1944 si trovava nella brughiera alla periferia di Busto Arsizio in missione per recuperare una partita di armi per i partigiani di montagna. Proprio in quei giorni la maggior parte delle fabbriche dell’alta Italia erano in sciopero ed anche nel legnanese la situazione era tesissima e i nazifascisti particolarmente infastiditi ed agguerriti. Candido venne fermato da una pattuglia italotedesca. Aveva con sé una pistola ma il maresciallo dei carabinieri nel verbale volle scrivere che non era armato, per evitare l’immediata fucilazione che era prevista nel caso fosse stato trovato con delle armi.

Candido venne inviato al carcere di San Vittore a Milano e condannato a morte per fucilazione, condanna che grazie all’intercessione del cardinale Ildefonso Schuster venne commutata in 28 anni di lavori forzati da scontare dopo la fine della guerra. Il 6 di aprile venne caricato su un carro bestiame: destinazione il lager di Mauthausen, vicino a Vienna.

«Il mio arrivo a Mauthausen è un trauma – racconta Candido Poli in una lunga intervista rilasciata a 90 anni e di cui proponiamo alcuni stralci tratti da “Quei ventenni del ‘43”. – Tutto quello che sapevo fino ad allora era che si andava a lavorare, almeno così ci avevano detto, e il lavoro non faceva paura a nessuno. La guerra finirà, pensavo, e – lavorare in Tosi o in Germania – prima o poi tornerò a casa. Non ero a conoscenza dei campi di sterminio, non sapevo cosa fossero e tanto meno ero a conoscenza delle condizioni in cui avremmo dovuto lavorare.
La prima volta che mi sono reso conto di come stavano le cose e ho pensato in modo crudo “qui non c’è scampo” è stato quando ci hanno fatto scendere dal treno: è mattino prestissimo e vedo che continuano ad arrivare tradotte cariche di gente. Penso: ma come, siamo partiti in quattro gatti e qui siamo migliaia e c’è gente da tutta Europa!
Già, il viaggio era stato un dramma. Nel nostro vagone eravamo una sessantina e tutti in piedi, non si poteva stare sdraiati perché non c’era posto. Vicino al portellone un mucchietto di segatura: scopriremo più tardi che doveva servire come gabinetto per tutti quanti.Sette giorni di viaggio: una volta sola ci hanno aperto il portellone e all’arrivo a Mauthausen, il vagone era ormai un inferno fetido. C’era un buio pesto e un freddo pungente.La prima volta ci hanno aperto il portellone dopo Innsbruck, ci hanno dato un pezzo di pane e una brodaglia in un bicchiere, la seconda volta alla stazione di Mauthausen ma ormai qualcuno, tra i più anziani, era già morto.
Scesi dal treno, nel tratto di strada che va su verso il campo si cominciano a vedere cani lupo che azzannano quelli che escono dalla fila dove siamo incolonnati. Ricordo che la scena mi aveva fatto particolare impressione.
Al campo altro trauma: ci fanno spogliare tutti e ci lasciano nudi e in piedi per cinque o sei ore. Tutti: giovani, vecchi, donne e bambini. Io avevo vent’anni ma certo non c’era la spigliatezza che ci può essere oggi. Ma poi non si ha neanche più il tempo di farci caso perché si comincia a pensare solo al freddo. Siamo in aprile ma fa un freddo cane e bisogna stare in piedi immobili per ore e aspettare il proprio turno.
E’ la selezione: un signore in camice bianco, non so se medico o cos’altro, dietro un tavolino, chiama uno per uno in tedesco. La prima volta che mi chiamano e mi danno il numero di matricola non ho capito nulla. E come potevo sapere che il Zwei TausandEinhundert Zwei und Dreizing ero io? lo ero il 2132 e in tedesco non lo sapevo ma poi ho dovuto impararlo subito e in fretta perché chi non lo imparava subito ci rimetteva la vita a suon di calci e bastonate.
Stiamo una settimana in baracca a Mauthausen poi mi trasportano a Dachau. Successivamente mi trasferiscono ancora e mi mandano in un sottocampo di Dachau che si chiama Bernau.
Il kapò della mia baracca era un cecoslovacco al quale poi salvammo la vita. Picchiava sì, ma c’era modo e modo di picchiare, lui non picchiava con cattiveria, non picchiava tanto da rovinare una persona: gli altri sì, gli altri massacravano. Dopo la Liberazione fecero il processo anche a lui: mi chiamarono a testimoniare, mi portarono in barella e dissi come si era comportato con noi. Le mie parole erano tenute in considerazione e il kapò fu graziato.
A lavorare ci mandavano dappertutto. Spesso ci mandavano in un campo all’aperto, al freddo, tutto il giorno e con qualsiasi tempo. E allora le cose più banali diventavano tragedie: uno per andare al gabinetto doveva chiedere il permesso al comandante: Kommandant, ichmuss aut denAbortgehen… ma la SS faceva finta di non sentire oppure ti diceva che non si poteva e te lo faceva capire facendo menare la frusta che aveva in mano e così per tutto il giorno. Alcune volte andavamo a disinnescare le bombe inesplose: dovevamo scavare piano piano una buca attorno alla bomba e anche qui molti, tanti, sono saltati in aria proprio mentre stavano scavando. Ma anche al campo si poteva morire per nulla, per un capriccio delle SS e da un momento all’altro.
Un’altra cosa insopportabile era il silenzio. Già c’era difficoltà a capirsi perché tra noi si parlava un miscuglio di lingue che sa Dio come facevamo ad intenderci ma in più non si poteva parlare, non ci si poteva muovere, non si poteva far niente di niente se non quello che ci veniva ordinato, altrimenti erano botte e bastonate. L’eliminazione fisica era crudele, quella morale e psicologica deprimente. Il non poter parlare, il sentirti solo come un cane, il sapere che le SS ti possono ammazzare quando vogliono…Li vedi ogni giorno, quelli impiccati, quelli moribondi che mandano al crematorio per bruciarli, vedi tutto, le atrocità più assurde e non puoi dire nulla, anzi cerchi solo di non fare la stessa fine e di salvare la pelle.
La nostra Liberazione avviene il 6 maggio 1945: il nostro campo viene circondato contemporaneamente dalle forze francesi e inglesi quando anch’io sono ridotto allo stremo e sono già nel lazzaretto.
Riuscirò a vedere i miei genitori solo nella primavera del ‘46. Mio padre aveva saputo che ero ancora vivo dalla radio e allora vennero a trovarmi a Merano. Fino al novembre ‘45 risultavo vivo presso la CR internazionale ma non erano riusciti a trovarmi.
A Legnano era già arrivata la notizia che ero stato fucilato.»

FONTE: Paolo Pozzi, “Quei ventenni del ‘43. Appunti di cronaca e storia della Resistenza nell’Alto Milanese”, Macchione Editore 1995, pp. 119-121

– Giorgio Vecchio, Nicoletta Bigatti, Alberto Centinaio, “Giorni di guerra. Legnano 1939-1945”, Anpi Legnano 2009, pp. 201-202

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Pubblicato il 04 Gennaio 2021
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