Omicidio Ravasio, Fabio Oliva in lacrime in aula: “Non so perché non sono andato dalle Forze dell’Ordine”
Lunedì 16 giugno Oliva è stato il primo tra gli imputati a processo per la morte del 53enne a sottoporsi ad esame e controesame davanti alla Corte d'Assise di Busto Arsizio

Un lungo silenzio, poi tre parole con la voce rotta e le lacrime che gli bagnavano il viso: «Non lo so». Non ha saputo aggiungere altro Fabio Oliva, meccanico classe 1984 di Parabiago, nel momento in cui gli è stato chiesto per quale motivo non si fosse rivolto alle Forze dell’Ordine quando il 9 agosto è stato chiamato a casa di Adilma Pereira Carneiro per far ripartire la Opel Corsa utilizzata poche ore dopo per l’omicidio di Fabio Ravasio, ucciso in un agguato orchestrato in modo da far credere che l’uomo fosse stato investito da un pirata della strada poi datosi alla fuga lungo la provinciale tra Busto Garolfo e Parabiago.
Lunedì 16 giugno Oliva è stato il primo tra gli imputati a processo per la morte del 53enne a sottoporsi ad esame e controesame davanti alla Corte d’Assise di Busto Arsizio. Incalzato dalle domande del sostituto procuratore Ciro Caramore e dei legali che difendono gli imputati, il meccanico 41enne ha raccontato di come già nei giorni precedenti a quello dell’omicidio la “mantide” si fosse presentata in officina dicendo che avrebbe ammazzato Ravasio e che «non lo sopportava più», senza però che lui desse peso a quelle parole, interpretate come uno sfogo. La donna, peraltro, secondo quanto riferito in aula dall’imputato, si sarebbe lamentata di come la vittima trattava lei e i suoi due figli più piccoli e dei dissidi con i genitori dell’allora compagno, parlando di una separazione di fatto in casa nonostante i due, insieme, sembrassero «una coppia normale».
Poi il 9 agosto la chiamata da Adilma, che senza troppi preamboli al suo arrivo nella casa di via delle Orchidee gli avrebbe chiesto di far ripartire la Opel Corsa nera che ha messo fine alla vita di Fabio Ravasio, perché con quell’auto voleva simulare un investimento ai danni del compagno in zona pioppeto. Parole che ancora una volta non vengono prese sul serio dal meccanico, che si sarebbe limitato a riattaccare la batteria dell’auto e sistemare uno dei fari per poi tornare in officina. Anche perché – ha spiegato Oliva alla Corte d’Assise presieduta da Giuseppe Fazio – un investimento in quel punto «sembrava inverosimile», al punto da spingerlo a salire in sella alla sua Vespa per andare a rivedere con i suoi occhi quel tratto di strada prima di trascorrere la serata ad una festa di paese con la compagna.
Solo al termine della serata, stando a quanto ha riferito in aula, Oliva avrebbe poi trovato una chiamata senza risposta di Massimo Ferretti e lo avrebbe raggiunto nel suo bar, scoprendo che Fabio Ravasio si trovava in fin di vita in ospedale, per poi dirigersi in via delle Orchidee. Lì domande dirette il meccanico non ne riceve, ma capisce in fretta di essere stato chiamato in causa perché Adilma Pereira Carneiro e gli altri imputati volevano far sparire l’auto utilizzata per il delitto: sulla scocca del mezzo – glielo fa notare la figlia maggiore della “mantide” – si vedevano ancora i capelli di Ravasio.
Davanti alla Corte d’Assise Oliva è tornato anche sulla telefonata in cui nei giorni successivi Adilma Pereira Carneiro gli aveva chiesto informazioni sulla presunta vendita della Opel Corsa – confusa, forse ad arte per «avere un alibi», come ha sottolineato il meccanico, con la trattativa per l’acquisto del mezzo di un altro cliente di Oliva – ad un commerciante due anni prima circa, a seguito della quale non ci sarebbe stato però un passaggio di proprietà. E sulle telefonate dell’operatore di Polizia Locale oggi indagato per favoreggiamento, che lo aveva chiamato per sapere dove fosse o cosa stesse facendo mentre si trovava in caserma dai Carabinieri dopo essere stato prelevato: una chiamata che ha lasciato all’imputato la sensazione che l’uomo sapesse già che la Opel Corsa era finita nel mirino dei militari, nonostante la notizia non fosse ancora di pubblico dominio.
In aula, pur tra lo scetticismo malcelato delle parti civili, è stata anche letta la lettera indirizzata da Oliva ai genitori di Ravasio dopo 22 giorni trascorsi in cella, con cui aveva offerto a mo’ di risarcimento un aiuto concreto verso una casa famiglia per bambini della zona. «Vorrei essere per loro, per almeno cinque anni un “papà” – aveva scritto oliva a Mario Ravasio ed Annamaria Trentarossi -. Un papà che per almeno cinque vigilie di Natale si impegnerà a vestirsi da Babbo Natale e donare loro regali ma soprattutto sorrisi. Essere per loro una risorsa per poter sistemare, migliorare e prendersi cura della loro “casa”, qualunque sia la loro esigenza o richiesta. Mi vorrei impegnare, inoltre, nel poter organizzare un raduno di auto d’epoca […] per raccogliere soldi da donare per le loro esigenze. Mi piacerebbe poter donare a loro momenti, attimi e sentimenti della mia vita come riconoscimento. Un riconoscimento verso di voi per questo mio sbaglio enorme, sbaglio al quale ancora oggi fatico a dare un valore, ma che spero di poter solo minimamente colmare con tutti questi gesti, sempre in memoria di vostro figlio Fabio».
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