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Le foibe raccontate dal prof. Giorgio Vecchio: “Onorare queste vittime significa impegnarsi per evitare altre tragedie”

L'intervento del professore universitario legnanese ha documentato aspetti fondamentali, causa del martirio di migliaia di italiani d'Istria

giorgio vecchio

Il racconto storico del Giorno del Ricordo a Legnano, dopo lo scoprimento di una targa ai giardini del quartiere San Paolo, dedicata ai Martiri delle foibe e agli esuli giuliano-dalmati è stato tenuto dal prof. Giorgio Vecchio, legnanese, già docente di Storia contemporanea e direttore del Dipartimento di Storia all’Università di Parma. Un intervento apprezzato e seguito con attenzione dagli studenti delle scuole Montalcini presenti alla cerimonia.

Attraverso i vari passaggi storici di quel tragico periodo, il prof. Vecchio ha sottolineato alcuni aspetti fondamentali per comprendere la vicenda delle foibe. Si va dai contrasti causati da un robusto nazionalismo (“per gli italiani, gli slavi andavano considerati inferiori; al contrario, per gli slavi, gli italiani erano degli oppressori da cacciare”) alla guerra persa dall’Italia e alla guerra vinta dalla Jugoslavia (“alcune regioni rimangono fuori da ogni controllo. Lì può scatenarsi la violenza…. È il caso della Venezia Giulia, di cui fa parte l’Istria”), per arrivare alla vendetta della Resistenza jugoslava che non fa distinzioni (“acciuffa chi può, non si preoccupa eventualmente di celebrare giusti processi e così confonde innocenti e colpevoli”) e alla conclusione di un esilio delle popolazioni giuliano-dalmate che cercano di sopravvivere con la fuga.

Nella parte finale, un appello del prof. Vecchio ai giovani: “Oggi, noi ricordiamo tutti questi avvenimenti e facciamo memoria di tutte queste persone che hanno pagato con la vita o sofferto tante sciagure. Onorare queste vittime significa però anche capire i motivi delle loro disgrazie e impegnarsi a far sì che non si ripetano”. Di seguito il testo integrale dell’intervento

Intitolata a Legnano l’area verde “Martiri delle Foibe”, il sindaco: “Basta contrapposizioni”

Perché rendiamo onore oggi alle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata?
Quali vittime? Quali esuli? E perché ci sono state vittime ed esuli?
Cerchiamo di orizzontarci. Spostiamoci con la fantasia verso est, verso il mare Adriatico e le coste della Slovenia e della Croazia, più precisamente nella penisola dell’Istria e lungo le rive della Dalmazia. Splendide terre, con spiagge, scogliere ecittà ricche di storia, nelle quali sembra ancor oggi di essere a Venezia, perché ovunque svettano campanili e leoni di San Marco. Lì vivevano, abbastanza pacificamente, persone di lingua e cultura italiana, specie nei centri lungo la costa, insieme a sloveni e croati, per lo più residenti nelle campagne dell’interno. Però, su tutti, alla fine dell’Ottocento, cominciò a soffiare il vento del nazionalismo: per gli italiani, gli slavi andavano considerati inferiori; al contrario, per gli slavi, gli italiani erano degli oppressori da cacciare. Al termine della Prima guerra mondiale, quelle terre – l’Istria e la città dalmata di Zara – furono conquistate dal Regno d’Italia e divennero province italiane. Il governo di Mussolini impose l’italianizzazione forzata e represse con durezza quegli sloveni e quei croati che pretendevano il rispetto delle proprie tradizioni e della propria lingua. Dall’altra parte del mare sorse invece un nuovo Stato, dalla vita difficile e turbolenta, che si chiamò Jugoslavia, ovvero lo Stato degli slavi del sud. Qui le diverse etnie presenti – specie i serbi e i croati – continuarono a guardarsi con ostilità.
E adesso spostiamoci nel tempo, mentre infuria la Seconda guerra mondiale.
Il 6 aprile 1941 truppe italiane e tedesche invadono la Jugoslavia, che si dissolve. Inizia un periodo di scontri armati, nei quali gareggiano per ferocia i tedeschi, i croati, i serbi e, purtroppo, anche gli italiani. Si scatena la caccia all’ebreo. Sulla scena irrompono i partigiani jugoslavi comunisti, guidati da un uomo che si fa chiamare Tito.
L’8 settembre 1943 viene però annunciato che l’Italia si è arresa agli Stati Uniti e ai loro alleati. Lo Stato italiano si sfascia, il Regio Esercito si disperde e, mentre la Germania nazista inizia la conquista totale del nostro territorio, alcune regioni rimangono fuori da ogni controllo. Lì può scatenarsi la violenza di chi ambisce al potere o alla vendetta. È il caso della Venezia Giulia, di cui fa parte l’Istria.
Tra aprile e maggio 1945, invece, termina finalmente la guerra. Il regime fascista di Mussolini scompare definitivamente, ma l’Italia è in una condizione drammatica, costretta alla fame, sotto un cumulo di macerie e deve piangere 450.000 morti. Nelle nostre province orientali si sono installate le formazioni partigiane jugoslave, che – loro sì – la guerra l’hanno vinta.
Inizia un nuovo periodo di violenza.
Ebbene, in quelle terre – in modo particolare in Istria, alle spalle di Trieste –esiste una particolarità geologica: le foibe. Cosa sono? Sono dei profondissimi buchi naturali nel terreno, come degli imbuti, che la popolazione locale usa spesso anche come discarica. Ed è in queste foibe che – dapprima nel 1943 e, in misura maggiore, nel 1945 – vengono fatti cadere i corpi di molte persone, uccise sull’orlo del baratro. Le vittime sono quasi sempre italiane, ma talvolta anche jugoslave; gli assassini sono jugoslavi. Viene inventata una nuova parola, orribile: gli “infoibati”, che poi però viene estesa a tutte le vittime, anche se uccise in altri luoghi, per esempio in campi di concentramento o in carcere o fucilati altrove. Il numero di questi morti è molto alto, anche se non sapremo mai la cifra esatta: da 4.000 a 12.000, calcolano gli studiosi più seri. Forse anche di più.
Tra gli uccisi – dicevo – ci sono soprattutto persone di lingua e cultura italiana, chiamate a pagare un conto pesantissimo. La loro colpa? Quella, appunto, di essere tali: agli occhi dei loro carnefici, infatti, essi rappresentano quello Stato italiano – lo Stato fascista – che li ha oppressi per vent’anni. Un motivo politico, dunque, che però non fa distinzioni, acciuffa chi può, non si preoccupa eventualmente di celebrare giusti processi e così confonde innocenti e colpevoli.
C’è però di più. Gli assassini sono militanti della parte vittoriosa della Resistenza jugoslava, quella comunista guidata da Josip Broz, il leggendario Tito. Il loro progetto non è soltanto quello di instaurare un regime autoritario, sul modello di quello sovietico di Stalin, che non lascia spazio a chi la pensa diversamente; no, essi vogliono attuare una rivoluzione sociale e anche espandere i confini della rinata Jugoslavia ai danni dell’Italia. Secondo i loro piani, anche Trieste dovrebbe diventare jugoslava.
Ecco perché nelle foibe (o nelle carceri o nei campi di concentramento) finiscono non solo rappresentanti dello Stato italiano sconfitto (poliziotti, carabinieri, ma pure postini, impiegati comunali e così via), ma anche persone benestanti, accusate di essere oppressori del popolo, e poi tutti coloro che potrebbero rappresentare una minaccia per la nascente dittatura. Ed è per questo che vengono eliminati quegli sloveni e quei croati che non vogliono farsi comunisti, come coloro che nella città di Fiume vogliono ricreare un piccolo Stato autonomo, come era stato nei primi anni Venti.
Sono mesi di terrore e per gli italiani dell’Istria e della Dalmazia sembra praticabile solo una strada: fuggire. Si ha paura di restare, si ha paura di essere arrestati, di finire nelle foibe. La gente dell’Istria si imbarca sulle navi per trasferire sulla nostra penisola e ricostruire una vita. Qualcuno spera ancora: si dice, per esempio, che la città di Pola rimarrà all’Italia. Non c’è però niente da fare: il clima di terrore ha già raggiunto la città. Il 18 agosto 1946, una calda domenica d’estate, sulla spiaggia di Vergarolla a Pola qualcuno provoca un’enorme esplosione con almeno un centinaio di morti tra coloro che si godono il mare e il sole. Molti di loro sono bambini. Di più: il trattato di pace che l’Italia sconfitta deve firmare a Parigi il 10 febbraio 1947 impone che tutta l’Istria (oltre a Zara) vada alla Jugoslavia. Anche da Pola inizia la fuga in massa degli italiani.
E così, tra il 1945 e la metà degli anni Cinquanta, a ondate successive, circa 300.000 italiani lasciano le loro case, le loro terre, i loro morti nei cimiteri. Sono loro gli esuli giuliano-dalmati che oggi ricordiamo.
Come vengono accolti questi profughi? Nella penisola ci sono molti episodi di solidarietà, malgrado l’Italia sia in quel momento un paese distrutto e poverissimo. Si cerca di offrire un tetto, di far andare i bambini a scuola, di procurare assistenza e lavoro. Ma non è sempre così, purtroppo.
Pesano infatti i pregiudizi politici e gli schemi ideologici. Il Partito Comunista ritiene che questi profughi siano tutti compromessi con il fascismo, perché altrimenti non scapperebbero dalla Jugoslavia comunista; a destra, invece, i nostalgici di Mussolini cercano di far dimenticare le gravi responsabilità del fascismo nell’aver contribuito a creare un clima di odio da quelle parti. Tutti i partiti si fanno dominare dall’ideologia della contrapposizione tra l’Occidente filoamericano e l’Oriente filorusso.
E la gente comune? Come ho detto, molti si rimboccano le maniche per aiutare i profughi; altri, invece, si fanno imprigionare dai soliti luoghi comuni che ogni volta accompagnano l’arrivo di estranei a casa nostra: i profughi istriani sono sporchi, ci rubano il lavoro, non parlano neppure l’italiano (perché molti si esprimono nel loro dialetto giuliano).
Succede così che tanti profughi giuliano-dalmati decidano di non fermarsi nella penisola e se ne vadano direttamente in Australia o nelle Americhe. Per altri, più fortunati, si costruiscono case e quartieri, come a Roma o come a Fertilia, in Sardegna. Altri ancora rimangono a vivere nelle baracche fino alla metà degli anni Sessanta: è il caso del “Villaggio San Marco”, che riutilizza le baracche del campo di concentramento di Fossoli, già usato dai nazisti per rinchiudervi ebrei e antifascisti.
Oggi, dunque, noi ricordiamo tutti questi avvenimenti e facciamo memoria di tutte queste persone che hanno pagato con la vita o sofferto tante sciagure. Onorare queste vittime significa però anche capire i motivi delle loro disgrazie e impegnarsi a far sì che non si ripetano. Tocca a tutti noi e soprattutto a voi, ragazzi e ragazze, costruire un’Europa migliore di quella attuale, che pure è già tanto migliore di quella del passato: oggi, nel 2022, italiani, sloveni e croati possono convivere amichevolmente nella stessa Unione Europea e possono anche cercare – finalmente – di rivedere insieme e in modo critico il loro passato. Lo hanno fatto, con un gesto simbolico bellissimo, il nostro presidente Sergio Mattarella e il presidente della Slovenia Borut Pahor, quando il 13 luglio 2020 – tenendosi per mano – hanno reso omaggio prima alle vittime italiane della foiba di Basovizza e poi a quattro giovani sloveni fatti fucilare dal regime fascista nel 1930.
Il futuro si costruisce conoscendo il passato, comprendendo gli uni le ragioni degli altri e dando un nome sia alle vittime innocenti sia ai responsabili delle loro sofferenze. Senza reticenze e senza confusioni.

Prof. Giorgio Vecchio

Redazione
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Pubblicato il 10 Febbraio 2022
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