Fair-play, il tallonatore del Rugby Parabiago: “Nel rugby il rispetto è la prima regola, non una formalità”
L’intervista a Massimo Ceciliani, tallonatore del Rugby Parabiago, che racconta il suo punto di vista su un tema centrale per il mondo della palla ovale e sempre più delicato nel panorama sportivo italiano
In un periodo segnato da episodi di tensione e comportamenti poco sportivi sui campi locali, continua il nostro percorso dedicato al fair play e ai valori autentici dello sport. Nel rugby il rispetto non è un valore da ricordare, ma una regola da vivere. Dalla stretta di mano prima del fischio d’inizio al “terzo tempo” condiviso con gli avversari, ogni gesto racconta un modo diverso di intendere lo sport: niente rancori, niente polemiche, solo passione e disciplina. Per questo abbiamo intervistato Massimo Ceciliani, tallonatore del Rugby Parabiago (Serie A), uno che in campo vive la mischia da dentro, dove il contatto è duro e il confine tra forza e rispetto è sottile. Proprio per questo, la sua visione del fair play suona ancora più autentica.
Il “terzo tempo” è una delle caratteristiche più iconiche del rugby. Ce lo spieghi con le tue parole? «Il terzo tempo è un momento di convivialità che, per fortuna, è ancora oggi una tradizione viva, sia tra i più giovani che tra i grandi. È quel momento in cui, dopo la partita, le due squadre si ritrovano insieme: si beve una birra, si mangia un piatto di pasta, si chiacchiera. È una parte fondamentale del nostro sport, perché durante le partite può capitare che ci siano momenti di tensione, come in tutti gli sport, ma al fischio finale tutto finisce lì. Non ci si porta mai rancore fuori dal campo. Il terzo tempo serve proprio a questo: a ritrovarsi, a ridere, a salutare anche ex compagni di squadra. È un momento importante, che speriamo continui ad esistere anche in futuro».
Restando sul tema delle tensioni in campo: come vengono gestite nel rugby? Ci sono differenze rispetto ad altri sport? «Non so dire con certezza se vengano gestite in modo diverso, perché io ho sempre giocato a rugby, a parte qualche esperienza veloce in altri sport. Nel nostro caso, le tensioni restano dentro il gioco. Può capitare uno spintone o uno strattone, ma tutto finisce lì. Al fischio finale si fa il saluto e ci si comporta come se nulla fosse successo. Una cosa molto importante è che l’arbitro ha sempre ragione. Che sia nel giusto o nel torto, la sua parola è legge. Può sembrare banale, ma è la base del rispetto in campo. E se un giocatore protesta o si rivolge male all’arbitro, in pochi secondi arriva il cartellino. Un’altra regola fondamentale è che in campo può parlare solo il capitano. Qualsiasi comunicazione tra arbitro e giocatori passa da lui. È un modo per mantenere l’ordine e per sottolineare il rispetto verso la figura arbitrale».
Quindi non è una regola scritta, ma è universalmente rispettata? «Esatto, non è scritta da nessuna parte, ma vale ovunque. E se un giocatore, preso dal nervosismo, si rivolge direttamente all’arbitro, quest’ultimo gli risponde semplicemente: “Parla con il tuo capitano”. Se insiste, arriva il cartellino giallo e dieci minuti fuori per protesta. È una regola non scritta, ma sacra per tutti».
Negli sport locali capita sempre più spesso di assistere a episodi di violenza o comportamenti scorretti, anche tra i ragazzi. Secondo te il rugby riesce a evitarli proprio grazie a queste regole e al suo codice etico? «Sicuramente sì, nel rugby l’arbitro viene percepito come una figura da rispettare, non da contestare. E questo si trasmette anche ai più giovani. Se impari da subito che l’arbitro ha sempre ragione, impari anche l’autocontrollo e la disciplina. Inoltre, il fatto che tutto passi attraverso il capitano responsabilizza i giocatori. È un sistema che funziona, e che contribuisce a mantenere il rugby uno sport corretto e “pulito”. Anche perché, essendo il rugby uno sport di contatto e di mischia, se non fosse improntato al rispetto e regolamentato, degenererebbe facilmente in uno scontro incontrollato».
E proprio su questo: perché, secondo te, il rugby viene considerato uno sport così “pulito” e legato al fair play? «Il rugby è uno sport che mette al centro il rispetto, sia in campo che fuori. In campo, come dicevo, ci sono regole precise e valori condivisi: rispetto per l’arbitro, per i compagni, per gli avversari e persino per il pallone. Fuori dal campo, invece, si vede ancora di più. Negli stadi non ci sono settori divisi per tifoserie: i tifosi stanno insieme, anche se sostengono squadre diverse. È normale vedere gente di due squadre rivali che guarda la partita insieme, magari bevendo una birra. Anche ai livelli più alti, come nelle partite della nazionale, lo stadio è un mosaico di colori, non una divisione. È questo che rende il rugby speciale: la capacità di unire, di mantenere vivi i valori del rispetto e della condivisione. Speriamo davvero di riuscire a tramandarli alle generazioni future».










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