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Pino Bravin vince concorso nazionale letterario dell’ANPI

"Sotto i teli", un racconto sulle atrocità di tutte le guerre, con riferimenti ai fatti attuali...

Pino Bravin, avvocato, politico sanvittorese e pure scrittore. E' proprio di questi giorni la notizia del suo successo al primo Concorso Letterario Nazionale indetto dalla Sez. A.N.P.I. di Rescaldina per commemorare i 70 anni dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Di seguito, il suo racconto che pubblichiamo con piacere.


Sotto i teli

A scuola i nostri bambini dormono in fila nei lettini colorati.
Anche i bambini sul giornale sembrano dormire in fila, sudati come avessero smesso appena di giocare al sole, sono bambini siriani, occhi e capelli scuri, stesi sotto un telo che li copre a metà.
Mi verrebbe da parlare sottovoce per non svegliarli se non sapessi che loro non avranno risveglio, che il gas li ha soffiati nel nulla, vetrificati, bellissimi nell’incanto assoluto del loro reciso fiorire. Perché sono morti? erano forse un pericolo le loro labbra al sapore di dattero? no, sono morti perché in quegli angoli di mondo neppure gli angeli hanno scampo dai dittatori che vestono da profeti e dai profeti che vestono da dittatori. Sono morti in un paese dove le madri partorirebbero tra uova di lucertole o tra gobbe di cammello pur di avere pace e non dover compiangere ogni giorno il dolore di altre madri, sapendo che prima o poi quel dolore spalancherà anche le loro case. Da qui a sera i giornali saranno buttati insieme ai bambini, dopo cena tutto sarà finito.
Solo il vento del deserto continuerà a scavare culle di sabbia dorata mentre il sole calante vorrebbe non più risorgere domani per non scaldare altre morti.
Guardo i bambini siriani e mi vengono alla mente altri corpi, allineati a terra sul pascolo di un monte nell’autunno del ‘44.
Otto ragazzi in età di lotta e d’amore. Uno di loro, Mario, ce l’ho in casa in un ritratto a olio con fazzoletto rosso al collo, era stato adottato da una famiglia che ho conosciuto e ora è lì con i suoi occhi giovani e i capelli pettinati all’indietro. Fumavano e baciavano le staffette partigiane, volevano resistere al fascismo. Dopo ore di cammino c’era ad attenderli quel giorno il fieno di una stalla, via finalmente gli scarponi e un po’ di riposo. Gerry era il primo di guardia, stanco morto, stava per dire agli altri “non so se riesco a rimanere sveglio ancora due ore”, ma un partigiano non può cedere al sonno. Così non disse nulla e si appostò a una cinquantina di metri, tra il bosco e il prato. Accese una sigaretta
per tenere gli occhi aperti e soffiar via dalla testa quel ronzio “chi vuoi che arrivi a quest’ora fin quassù”. Aspirava e cercava di scrollarsi dalle ciglia quella ninna nanna traditrice, niente da fare, tornava più suadente e vellutata “senti che calma, ti sveglieresti al rotolar di un sasso, non aver timore”. Alla fine si appisolò seduto contro un masso col fucile tra le mani. I tedeschi lo presero che stava sognando una ragazza, “appena finisce questa guerra la invito al cinema e sarà la mia donna” diceva ai compagni. Gli chiesero quanti erano quelli dentro la cascina e gli ordinarono di chiamarli. Non appena tutti fuori, senza scarpe, assonnati e disarmati, sorpresi dalla sveglia inattesa, li mitragliarono. Caddero in un palmo di terra, tirati per le braccia e messi in fila come i bambini siriani, poi fecero stendere anche lui e lo finirono. I compagni partigiani salirono in fretta per essere accanto a quelle morti ancora calde e si trovarono di fronte a un telo verde da cui spuntavano le gambe e i piedi scalzi, era difficile non piangere. Le madri inginocchiate carezzavano le teste dei figli, qualcuna pregava, li abbracciavano come a volerli ancora allattare, le loro lacrime cadevano sulle guance impallidite, sulle barbe non fatte, sui capelli intrecciati di fieno. Nessuno osava dire a quelle donne “ora andiamo”, tutti capivano che si stavano riprendendo per sempre i loro figli, belli e incantati come i bambini siriani, se li stavano rimettendo nelle carni per non più lasciarli.
Otto figli raccolti in punta di mani per non scomporli, otto scie dolorose a scendere il monte verso otto case per l’ultima veglia Perché sono morti? per difendere la libertà da tiranni sanguinolenti e neri.
Ogni guerra ha i suoi teli, ogni telo i suoi morti.
Gli ultimi li ho visti sui migranti ripescati in mare, di colore verde o alluminio dorato, più che teli sacchi da trasporto, borse da supermercato della morte con cerniera per infilarci i corpi annegati. Vorrei aprirne uno, uno piccolo, da ragazzo, guardargli il viso e gli occhi che immagino grandi e bianchi come le creste delle onde, contargli sulla fronte i baci della madre, far finta di
dirgli che non si può morire così sapendo che in poche ore altri ragazzi arriveranno incernierati e imbustati.
Mi si stringe il cuore per quei filari di morte, ma non basta, è troppo comodo cavarsela con una stretta di cuore, è come recitare tre pater-ave-gloria di penitenza dopo la confessione.
I ragazzi partigiani non potevano immaginare che i loro fazzoletti rossi anziché farsi aquiloni incandescenti nel cielo si sarebbero impigliati nel bosco degli inetti e degli ipocriti, di chi se ne sta sempre riparato dentro maglie di lana contro gli spifferi del vivere.
Quando vado a trovarli al cimitero mi sento domandare dai loro pochi coetanei ancora vivi se tanto sacrificio sia servito a qualcosa. Sto zitto, mi fanno tenerezza chini sulle lapidi a pulire le foto con gli angoli dei fazzoletti. “Sono stati una speranza per l’uomo”, dico. Loro scuotono la testa e con le vecchie mani vanno avanti a passare i fazzoletti sugli ovali di porcellana che contornano volti sorridenti e forti.
I ragazzi migranti non potevano immaginare di finire sparpagliati e annegati come cani, non sapevano nulla della lotta partigiana, neanche li sfiorava l’idea che i barconi potessero essere vagoni di treni verso onde di sterminio. Ci si sono buttati dentro per scappare dai mille assassini che i tiranni generano ad ogni alzar di sole. I ragazzi migranti vengono a morire senza fazzoletti rossi al collo, senza cantare bella ciao, muoiono nella fuga per sopravvivere, muoiono senza sogni. Sono forse i nuovi partigiani in un mondo cambiato ? no, se per combattere un tiranno devono chiedere armi ad altri tiranni.
In questo mondo di annebbiate atrocità mi tengo stretto il 25 aprile, i piedi saldi nel suo solco di fazzoletti rossi da trapiantare a ogni primavera.
Vedo intanto all’orizzonte un telo tirato da uomini che alzano uno spaventoso latrare e spargono sudore di cento mandrie di cavalli, ma non sudore di galoppo, sudore di morte. Ne sollevo un lembo, mi appare nel mezzo un enorme teschio di miele attorniato da schiere di uomini che lo leccano e si mordono per arrivare in prima fila, e il teschio si riforma continuamente di nuovo miele che non è quello delle api ma quello dei dannati dell’inferno. Mentre il telo si allontana, i passeri intorno a me beccano briciole di democrazia rafferma sui tavolini dei bar, più li fisso più mi somigliano a uomini, anzi, sono uomini, siamo noi. Saltellano dal muretto al tavolino, la distanza di uno sputo, ingrassano e cinguettano, potrei prendere il loro cervello e farne poltiglia allungando una mano.
Siamo passeri e nidifichiamo sui tovaglioli dei bar tra marmellate e resti di saliva.
Su un piattino c’è uno stuzzicadenti con bandierina rossa, non è quella del 25 aprile, è per infilzare le olive. La prendo, la rigiro tra le dita, gioco con la sua punta, d’istinto la scaglierei contro l’insopportabile cip-cip dei passeri, poi me la metto in tasca, una piccola bandiera rossa per ricordarmi di guardare sempre sotto i teli e mandare un bacio a chi ha resistito al miele dei teschi.

Pino Bravin

Marco Tajè
direttore@legnanonews.com
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Pubblicato il 22 Giugno 2015
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