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Quattro parole per capire i nostri limiti (e la vita): dolore, sofferenza, stanchezza, stufo

Riflessione di Giuseppe Geneletti che analizza quattro parole che si incarnano nei volti concreti della vita quotidiana, ma che disegnano anche un quadrilatero dell’esperienza umana, quattro lenti per guardare la vita

Generico 22 Sep 2025

«Ti costringe a conoscere i tuoi limiti, a distinguere dolore e sofferenza». 
Ho letto questa frase di Elia Frittoli qualche giorno fa su VareseNews, in un racconto dal Tor des Glaciers, firmato da Tommaso Guidotti. Mi è rimasta dentro. Forse perché poco dopo, correndo, sono caduto due volte in pochi giorni.

Il dolore lì non ha bisogno di spiegazioni: la mano che sanguina, il ginocchio sbucciato, il fiato interrotto. Ma subito dopo è arrivata la sofferenza: il pensiero che nessuno si fosse fermato a chiedere come stavo, la consapevolezza che l’età avanza e le forze non sono più quelle di un tempo, la frustrazione di non aver ancora imparato ad evitare il pericolo, pur di sentirmi vivo. Ecco: il dolore ti visita nel corpo, la sofferenza nasce nella mente e ti accompagna ben oltre la caduta.

Da lì ho capito che accanto a dolore e sofferenza esistono altre due parole sorelle: la stanchezza e lo “stufo”. La stanchezza è un disequilibrio energetico, quando il corpo e la mente chiedono riposo. Lo dicono i neurotrasmettitori: l’adenosina che si accumula, la dopamina che cala, la noradrenalina che non basta più a tenerci vigili. Per questo la stanchezza si cura fermandosi, dormendo, lasciando che il sistema si riequilibri. Essere stufi, invece, è un disequilibrio di senso. Non c’è riposo che basti. L’energia magari c’è, ma non c’è più il “perché”. È la dopamina che non trova ricompensa, è la serotonina che non porta soddisfazione relazionale, è l’ossitocina che non si attiva nel legame con gli altri. Essere stufi non richiede un letto, ma un cambio di strada, di obiettivi, di sistema di relazioni. (Nota: grazie a Nino Marra per i riferimenti “tecnici”).

Il dolore è il fatto. La sofferenza è la narrazione. La stanchezza è la mancanza di energia. Lo stufo è la mancanza di senso.

Queste parole si incarnano nei volti concreti della vita quotidiana. Una mia collega, stimata da tutti, ha deciso di lasciare dopo decenni un lavoro sicuro per buttarsi in una start-up nel mondo degli eventi sportivi. Dolore per la sua partenza, sofferenza per la perdita di una presenza preziosa. Ma anche gioia, speranza, ammirazione per il coraggio di ricominciare da zero. Tristezza e felicità, fine e inizio, perdita e rinascita: una polarità che ci ricorda quanto la vita non stia mai ferma su un solo lato della bilancia. Un’altra collega, incontrata la mattina, mi ha detto senza filtri: “Sono stufa di avere mal di schiena.”

Pilates, iniezioni, ginnastica, yoga, massaggi: nulla cancella le conseguenze di una vita di danza. I dischi delle vertebre consumati non si riparano. In quel caso non c’è narrazione che tenga: il dolore cronico resta, e conviverci è l’unica via possibile. È il limite radicale che non possiamo aggirare.

E poi ci sono i quadri più grandi, collettivi. Le manifestazioni di questi giorni in Italia e nel mondo per Gaza nascono dalla sofferenza condivisa di chi guarda il dolore di un popolo e lo sente vicino. Ma quando quella sofferenza non trova una narrazione costruttiva, rischia di trasformarsi in nuova violenza, in un ciclo che si ripete. Qui i media hanno una responsabilità enorme: possono essere eco di divisione, se raccontano solo lo scontro, oppure strumenti di comprensione, se scelgono di ascoltare davvero e di dare voce alle persone più che ai cori.

Persino un vecchio film visto in famiglia torna attuale. Potere assoluto di Clint Eastwood, 1997: un presidente americano che mente, manipola, copre un omicidio, perseguita chi lo intralcia. La vicenda di allora suona paradossalmente familiare nell’America del 2025. Qui il dolore è il tradimento e la perdita, la sofferenza è la falsità che erode fiducia, il potere che nega la verità. È un’altra forma di narrazione tossica che prolunga il male invece di guarirlo.

Dolore, sofferenza, stanchezza e stufo: quattro parole che disegnano un quadrilatero dell’esperienza umana. Il dolore ti blocca nel corpo, la sofferenza ti accompagna nella mente, la stanchezza ti svuota di energia, l’essere stufi ti svuota di senso. Sono voci diverse dello stesso spartito che ci ricordano che non siamo infiniti, che la vita è fatta di limiti. Ma proprio quei limiti, se li sappiamo distinguere, ci aiutano a orientarci: a capire quando serve riposare e quando invece cambiare rotta; quando occorre accettare il male e quando si può trasformarlo in una nuova direzione.

Forse il segreto non è evitare queste esperienze, ma riconoscerle. Se è dolore, curalo. Se è sofferenza, raccontala in modo che liberi, non che intrappoli. Se è stanchezza, riposa. Se sei stufo, cambia senso e obiettivi. Così le cadute non restano solo ferite, le partenze non sono solo addii, le cronache non sono solo cicli di violenza.

Dolore, sofferenza, stanchezza, “stufo”: quattro parole come quattro lenti per guardare la vita. Ma il caleidoscopio è più grande: ci sono l’amore e la perdita, la pace e la guerra, la fiducia e la paura. Ogni coppia è un passaggio di senso, un limite che diventa rivelazione. I confini che ci feriscono sono anche quelli che ci spiegano.
Il dolore ti piaga. La sofferenza ti spiega.

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Lo spazio che non c’era
Che non sapevi ci potesse essere,
che potrebbe scomparire
se hai paura che sia un’illusione.
E invece è lì:
ti tocca ogni atomo di pelle,
anche quella dentro.
Te la stacca, tutta insieme,
e la rimonta.
E ci stai dentro bene.
Non pensavi fosse la tua misura:
è diventato un passaggio
per il treno della vita,
e tu non avevi neanche il biglietto.
Canta.
Balla.
Lo stai già facendo.

di
Pubblicato il 27 Settembre 2025
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