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Il volto che non si può scannerizzare

 Dal selfie per passare la frontiera a Lévinas, passando per Dio

Varie Estero

Il 24 agosto è una data che ha lasciato ferite nella memoria collettiva. Nel 79 d.C., l’eruzione del Vesuvio cancellò Pompei ed Ercolano in una nube di fuoco e cenere. Nel 1572, la Notte di San Bartolomeo trasformò Parigi in un inferno di sangue e persecuzioni degli ugonotti. E il 24 agosto 1991, l’Ucraina scelse la libertà dichiarando la propria indipendenza dall’Unione Sovietica. Sono date che parlano di vulnerabilità e violenza, ma anche di scelte radicali, di libertà e di identità.

Anche oggi, il 24 agosto, nel silenzio di un gate aeroportuale o nel gesto automatico di uno sblocco facciale, ci ritroviamo a fare i conti, forse senza accorgercene, con cosa significhi essere riconosciuti, essere liberi, essere umani.

Per entrare negli Stati Uniti, ho dovuto fare un selfie. Non uno qualunque, ma un’immagine scattata al volo con il telefono e caricata sul portale governativo, parte del sistema elettronico per l’autorizzazione al viaggio (ESTA). Non bastava la foto sul passaporto. Doveva esserci un’immagine viva, attuale, digitale. Dovevo dimostrare di essere me stesso, secondo i criteri di una macchina. All’ingresso alla frontiera, sotto gli occhi vigili delle telecamere di sicurezza che controllano altri database per riconoscimento facciale di persone sospette, ho guardato un visore, scannerizzato tutti i miei polpastrelli, e sono stato autorizzato. All’ultimo volo non ho nemmeno mostrato il passaporto. Niente carta d’imbarco, nessun saluto. Solo un rapido sguardo a una lente, e un cenno: “You’re good to go”. La mia identità era già lì, da qualche parte. In qualche database, in qualche algoritmo.

Mentre lo racconto a un collega, mi risponde quanto ami pagare ormai tutto con il telefono con le app che lo riconoscono con il volto, senza dover più ricordare password e codici vari. “È comodissimo,” mi ha detto, “mai più cercare il portafoglio nella borsa. Basta guardare lo schermo.” E poi ha aggiunto: “Sono stato a San Francisco e ho preso 4 volte il taxi. Nessun autista, auto a guida autonoma. Vede tutto, riconosce le persone in strada e se c’è un pericolo di attraversamento, si ferma o sterza. Ma io mi sono chiesto: riconoscono, ma la persona è vista davvero?

Viviamo immersi in un sistema che ci riconosce continuamente. Siamo accettati o respinti in base alla geometria del nostro viso. Siamo validi se combaciamo con un modello. Siamo volti leggibili, e quindi amministrabili. Ma in tutto questo, mi sono ricordato di Emmanuel Lévinas. Filosofo difficile, certo. Ma con un’idea semplice e potente.

Il volto dell’altro è nudo, esposto, fragile. E proprio per questo, mi obbliga moralmente. Non perché è utile. Non perché è bello. Ma perché mi guarda. E dice, anche senza parlare: “Non farmi del male.”

Ed è lì che il pensiero si è rotto. Perché oggi i volti non ci guardano più. Li leggiamo, li scannerizziamo, li confermiamo. Ma non li incontriamo più davvero. Abbiamo imparato a fidarci della macchina. Ma ci stiamo disabituando alla fragilità dell’altro. Mi è venuta in mente una frase che non riesco a scrollarmi di dosso: vulnerabile è Dio che mi dona la possibilità di essere libero fino a uccidere il Figlio. Cosa c’è di più radicale? Un Dio che non si impone, ma si espone. Che non ci obbliga a riconoscerlo, ma ci lascia liberi anche di rinnegarlo. Eppure, resta. Nel volto di chi chiede, di chi soffre, di chi ama senza essere corrisposto. Nel volto che non si può scannerizzare.

Continuerò a usare il Face ID. Mi farò riconoscere dalle macchine. Ma cercherò, ogni tanto, di vedere davvero un volto umano. Quello che non ha codici, che non mi apre una porta, ma mi spalanca alla sua vulnerabilità. E, così facendo, mi dona la possibilità di essere etico, rispettoso, prima della legge, prima di ogni richiesta. Umano.

Nota dell’autore

Il pezzo è tecnicamente chiuso. Ma questa notte non ho dormito un minuto. Diciamo che è l’effetto del cambio di fuso che ancora mi perseguita. E allora mi chiedo: cosa voglio veramente dire ai lettori di varesenews?

Penso che il contenuto di questo articolo sia necessario. Non perché offra una tesi definitiva, non vuole farlo, ma perché apre una domanda che oggi quasi nessuno osa porre: cosa perdiamo, umanamente, quando affidiamo il volto all’algoritmo? Questo non è una denuncia di un problema tecnico o sociale. È il sentiero di accostare l’esperienza del riconoscimento automatico alla dimensione del volto come spazio etico, fragile, irriducibile.
E, visto che è domenica e riposa, chiamiamo in causa Dio, non per chiudere il discorso con una verità, ma per portarlo al limite, dove si vede di più. “Vulnerabile è Dio che mi dona la possibilità di essere libero fino a uccidere il Figlio.” Non viene da una macchina. Viene da uno sguardo ferito e responsabile sulla libertà. La macchina ci riconosce. Ci risponde. Ci capisce. Ma non ci vede davvero. Non può sentire quel che proviamo guardando un volto che piange o uno che ci chiede aiuto. Non può distogliere lo sguardo per pudore, né abbassarlo per rispetto.
Non può essere etica, perché non può essere vulnerabile. Noi sì. Ed è questo il punto: la nostra capacità di accogliere il volto dell’altro senza ridurlo, senza dominarlo, senza leggerlo, ma semplicemente incontrandolo, è ciò che ci rende umani.
Questa consapevolezza è preziosa, è una resistenza silenziosa. Un atto di libertà. Una difesa non solo del volto, ma del mistero della relazione.

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Pubblicato il 24 Agosto 2025
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