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“Mazzetta” per la raccomandazione? Niente restituzione se il posto non arriva

La Cassazione ha ribadito che pagare per un posto di lavoro va contro al buon costume, e quindi non c'è diritto a riavere il denaro in caso di mancata assunzione

Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, e scordiamoci il passato? Se si parla di "mazzette" per la raccomandazione, è proprio così. A ribadire che chi paga per una raccomandazione non ha diritto a farsi restituire il denaro versato ci ha pensato la sesta sezione civile del Palazzaccio, chiamata a pronunciarsi su una "curiosa" vicenda iniziata davanti al Tribunale di Torre Annunziata e proseguita davanti alla Corte d'Appello di Napoli.

Oggetto del contendere proprio i 20.650,84 versati da un padre nel tentativo di assicurare alla figlia un posto di lavoro in un noto istituto bancario, dove la controparte sosteneva di avere alcune conoscenze. L'assunzione, però, non è mai avvenuta, e così il genitore ha deciso di sporgere denuncia per truffa e millantato credito – denuncia poi finita con proscioglimento per intervenuta prescrizione – e di rivolgersi al Tribunale per riavere il "maltolto"

Richiesta respinta dal Tribunale ma accolta in secondo grado dalla Corte d'Appello, con il risultato che per il "verdetto" finale la controversia è finita tra le aule di Piazza Cavour. Dove gli Ermellini hanno chiarito che la «consegna di una somma di denaro ai fini di un interessamento (vero o presunto) per l'ottenimento di un posto di lavoro» configura certamente «un negozio contrario a norme imperative, e quindi illecito», ma «integra anche gli estremi del negozio contra bonos mores, posto che è contrario al concetto di buon costume comunemente accettato il comportamento di chi paghi del denaro per ottenere in cambio un posto di lavoro (e ciò a prescindere dall'esito, magari anche negativo, della trattativa immorale)». E la «contemporanea violazione, da parte di una medesima prestazione, tanto dell'ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume». Con la conseguenza che la questione va risolta ai sensi dell'art. 2035, secondo il quale «chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato».

Leda Mocchetti
leda.mocchetti@legnanonews.com
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Pubblicato il 27 Aprile 2018
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