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“I carnefici del Duce”: le considerazioni dell’associazione “Gorgone”

legnano generica

17 Luglio 2023

In occasione della presentazione a Legnano (libreria Nuova Terra) del volume di Eric Gobetti “I carnefici del Duce” (Laterza 2023), l’associazione “Gorgone” ha diffuso il seguente comunicato:

Dopo la partigiana ricostruzione del dramma istriano-giuliano-dalmata in E allora le foibe?, Eric Gobetti torna alla ribalta con I carnefici del Duce. Un libro, si legge nel prologo, dedicato ai «crimini di guerra commessi durante il Ventennio fascista», scritto affinché gli italiani faccia noi conti con il loro «passato più oscuro», legato alle «responsabilità del fascismo» e alle «brutali violenze commesse [in guerra] in nome di quell’ideologia». Violenze che, sostiene Gobetti, dal 1945furono rimosse dall’inconscio collettivo, secondo la teoria della «mancata Norimberga italiana» che l’autore dice di voler trarre dal dimenticatoio, sebbene di autoassolutorio occultamento dei (veri o presunti) crimini di guerra fascisti si parli, spesso a sproposito, da decenni.

Nei Carnefici del Duce, del resto, Gobetti non propone alcunché di originale. Riciclato il titolo di un saggio di Goldhagen sui tedeschi che cooperarono alla Shoah (I volonterosi carnefici di Hitler), rispolvera, per confutarlo, lo stereotipo degli italiani «brava gente»(e che tali restavano anche indossando l’uniforme fascista).Ricalca cioè le orme di Del Boca, autore, sotto quella ironica titolazione, di una colpevolizzante «ricognizione dei crimini commessi dai nostri connazionali» dagli albori dello Stato unitario al secondo conflitto mondiale. Crimini che Gobetti, a differenza del collega, circoscrive al periodo mussoliniano, perché ciò che gli sta a cuore è perpetuare l’immagine demonica del fascismo a cui ci ha abituati la vulgata resistenziale.

Il ricercatore torinese, peraltro, non ha dato alle stampe un vero saggio accademico basato su ricerche d’archivio, bensì, per sua ammissione, un testo divulgativo ricavato (al pari di E allora le foibe?) da un collage di fonti secondarie (cioè dai lavori di altri storici). Fonti le cui informazioni sono prese per oro colato, purché funzionali a ciò che Gobetti intende dimostrare. Sì, perché egli non è il tipo di storico che si accosta al proprio oggetto con l’animo (relativamente) sgombro di pregiudizi, per puro amore di scienza; e che prima esamina i fatti, per poi estrapolarne una valutazione coerente. È invece il genere di studioso che muove da una tesi a priori, la quale diventa una camicia di forza entro cui i fatti vengono costretti. Tale modus operandi d’altronde già innervava il menzionato volume sulle foibe. Il cui a priori coincideva con la visione edulcorata che l’autore, notoriamente filo-iugoslavo, ha del regime titino, le cui brutalità contro gli italiani giustificava in base a due discutibili assunti: la violenza slava come reazione a quella fascista e il suo inserimento nel «quadro di morte e distruzione che aveva segnato l’Europa nella prima metà del Novecento» (il contesto che tutto assolve dunque, a condizione di trovarsi dalla parte giusta: che, per Gobetti, era quella di Tito).

Nei Carnefici del Duce, comunque, se varia il contenuto rispetto a E allora le foibe?, la forma, metodologicamente parlando, rimane la stessa. C’è sempre una tesi da dimostrare, un assunto più ontologico che storiografico. Ed è, per Gobetti, la natura intrinsecamente e irrazionalmente violenta del fascismo, il cui malefico influsso avrebbe corrotto gli italiani (i soldati in primis)rendendoli carnefici e al contempo vittime di un sistema criminogeno che li avrebbe indotti a commettere in guerra «banali crudeltà» (espressione che l’autore copia dalla Arendt di Eichmann a Gerusalemme).Rieccoci dunque alla demonizzazione del fascismo, la premessa ontologica in base a cui selezionare i fatti che si accordano alla teoria e scartare quelli che non vi concordano. Sorvolando, per esempio, su alcune evidenze: che le maniere forti, nelle colonie, l’esercito italiano le adoperò anche in epoca liberale (come fecero, nei loro imperi, democrazie quali Francia, Inghilterra e Belgio); che, su fronti come quello balcanico, dove si aveva a che fare con bande armate e non con forze regolari, le tattiche italiane di controguerriglia furono quelle (brutali senza dubbio) che adoperarono tutti gli altri eserciti costretti a muoversi in un teatro di operazioni simile; che i militari italiani, in Iugoslavia e in Francia, cercarono sovente di moderare gli eccessi degli alleati (ustascia e nazisti), al punto da accogliere nella propria zona di occupazione gli ebrei in fuga dalle persecuzioni; che, infine, il contesto di «morte e distruzione», a cui Gobetti ama ricorrere, o vale come criterio esplicativo della barbarie di tutti, o è un escamotage per concedere assoluzioni ai soli soggetti con cui lo storico è in sintonia.

In conclusione, nessuno contesta a Gobetti, al suo editore, alla rete di associazioni e librerie che gli fanno da compiacente megafono, il diritto di presentare i suoi lavori e di illustrare le tesi in essi contenute. Ci mancherebbe! Essendo però, quelle gobettiane, asserzioni divisive, che investono nodi controversi della storia nazionale, che toccano corde sensibili, che puntano a decostruire, come nel caso delle foibe e della messa in dubbio dell’onore dei combattenti, elementi essenziali alla formazione di una memoria comune, ciò che si contesta è altro. È l’autoreferenzialità di iniziative dove ce la si canta e ce la si suona tra sodali; il loro taglio manicheo; la puntuale assenza di un serio e motivato contraddittorio. Ciò che si critica, insomma, è la presunzione saccente di ritenere che un qualsiasi monologo sia preferibile a un aperto dibattito.
Associazione politico-culturale “Gorgone”

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