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Giorgio Vecchio: i cattolici nelle Resistenze europee con “Il soffio dello Spirito”

Proponiamo una intervista di Gianni Borsa al docente universitario legnanese, pubblicata  dalla rivista Polis Legnano in vista dell'anniversario del 25 Aprile

polis legnano

Si intitola “Il soffio dello Spirito” il nuovo volume dello storico Giorgio Vecchio che ricostruisce la presenza dei cattolici nelle formazioni partigiane in numerosi Paesi europei contro i regimi di Hitler e Mussolini. Motivazioni religiose e morali si accompagnavano a sentimenti libertari e democratici. Ci furono forme di Resistenza “civile” accanto a quella operata con il ricorso alle armi. Oggi, grazie alla collaborazione amichevole con Gianni Borsa, proponiamo una intervista al docente universitario legnanese pubblicata  dalla rivista Polis Legnano in vista dell’anniversario del 25 Aprile.

Scrivere una storia comparata della presenza dei cattolici nelle Resistenze dei vari Paesi europei: un’impresa complessa, cui si è dedicato a lungo Giorgio Vecchio, già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Parma, presidente del Comitato scientifico dell’Istituto Alcide Cervi e di quello della Fondazione Don Primo Mazzolari. Vecchio, primo presidente di Polis, ha speso anni di studio sulla Resistenza in Italia, con una specifica attenzione al contributo dei cattolici. Ora vede la luce, alla vigilia del 25 aprile, Il soffio dello Spirito. Cattolici nelle Resistenze europee (Ed. Viella). Un volume basato su un’ampia storiografia in più lingue e sulla rilettura della stampa clandestina, oltre che di svariate testimonianze: ne emergono le vicende di Paesi come Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, e naturalmente Italia.

La Resistenza, anzi le Resistenze sono state studiate e raccontate dai primi anni del dopoguerra fino a oggi. Quale la specificità di questo suo libro?

È vero, possediamo biblioteche intere sulle diverse forme di Resistenza contro l’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale. Però, quasi tutte non superano i rispettivi confini nazionali. In più, esistono gli ostacoli linguistici. I pochi volumi che hanno un orizzonte europeo (nel senso che trattano le vicende dei vari paesi) sono per lo più riassuntivi, oppure toccano problemi specifici, come per esempio, la politica anglo-americana o il contributo dei servizi segreti alleati.Io mi sono concentrato sul comportamento dei cattolici e sulle loro scelte resistenziali. Per questo motivo ho considerato unitariamente i paesi con una consistente o maggioritaria presenza di popolazione cattolica: quelli dell’Europa occidentale (Francia, Belgio, Paesi Bassi) e dell’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia). A essi ho aggiunto ovviamente l’Italia, ma anche Germania e Austria, dove la Resistenza antinazista non ha avuto per lo più risvolti armati, ma si è mossa sul piano politico e morale. Ho escluso paesi di tradizione cattolica, ma saldamente ancorati alla politica tedesca (per es. Ungheria e Croazia).

È possibile, storiograficamente, “comparare” le forze resistenziali al nazi-fascismo che hanno operato nei diversi Paesi europei?

La comparazione è sempre possibile e però deve tener conto di molti fattori. Anzitutto un fattore cronologico, determinato dalle fasi dell’occupazione tedesca: la Polonia è invasa nel 1939, l’Europa occidentale nel 1940, l’URSS nel 1941, l’Italia nel 1943… Esiste poi una cronologia resistenziale differente: i polacchi cercano di organizzare subito uno Stato clandestino, di straordinario rilievo; in Francia, Belgio e Paesi Bassi bisogna aspettare la svolta del 1942-1943, quando l’imposizione del lavoro obbligatorio nelle fabbriche tedesche impone di scegliere tra il sostegno diretto e personale al nemico e il passaggio alla clandestinità (il famoso maquis, la macchia, per i francesi). In Italia, la Resistenza inizia ovviamente con l’8 settembre 1943 e ha il suo maggior afflusso di volontari in seguito ai bandi di reclutamento emessi dalla Rsi.Bisogna tenere conto dei differenti comportamenti dei tedeschi, determinati da motivi razziali: l’occupazione è molto soft in Danimarca e inizialmente anche in Olanda e nelle Fiandre, mentre è spietata in Polonia e poi in Urss, dove assume connotati di snazionalizzazione e di sterminio. I nazisti, inoltre, variano da politiche che lasciano vivere le strutture dello Stato esistente ad altre di diretta occupazione militare, mentre tentano altrove la strada dei governi “fantoccio” (come di fatto diverrà la repubblica di Vichy in Francia, cui vanno aggiunti la RSI italiana, ma anche il regime di mons. Tiso in Slovacchia o quello di Pavelić in Croazia, ecc.).Non dimentichiamo, per una comparazione, anche la variante determinata dalla presenza dei partiti comunisti che, fino al giorno dell’attacco tedesco all’Urss, accettano forme di convivenza con l’occupante e non partecipano alle embrionali forme resistenziali.

Cattolici e Resistenza in Europa, il tema specifico di questa ricerca: quali le motivazioni che spinsero ad opporsi al nazismo?

Le motivazioni sono diverse e muovono per lo più dalla comprensione del pericolo del nazismo, che – come ideologia anticomunista e “nazionale” – ha infiltrato anche ambienti cattolici. In tutti i paesi occupati esiste una componente cattolica (fortunatamente marginale, ma talvolta con personaggi autorevoli) che ritiene possibile una convivenza positiva con il nazismo. Invece, i cattolici più avvertiti capiscono che ciò è impossibile e contrario alla fede. Molti di loro hanno studiato a fondo l’enciclica di Pio XI del 1937, Mitbrennender Sorge, e sono consapevoli dei pericoli. Penso in particolare al gruppo di gesuiti (tra cui il padre de Lubac) e di laici che in Francia dà vita ai «Cahiers duTémoignagechrétien», che sono quaderni monografici ricchissimi di documentazione e di “contro-informazione”.La motivazione – diciamo così – religioso-morale è poi rafforzata dai convincimenti patriottici e da quelli democratici, che una parte dei cattolici europei possiede. L’eredità della prima guerra mondiale è ovunque molto forte e ha favorito la sovrapposizione (talvolta virtuosa, talvolta peccaminosa) tra Chiesa, cattolici e cause nazionali. In paesi come la Francia, però, ciò deve fare i conti con l’atteggiamento della gerarchia e della maggioranza dei fedeli, che si stringe attorno a Vichy e al suo capo Pétain, affascinata dai richiami alla rigenerazione morale del paese. Ma il crescente asservimento di quel regime alle esigenze di Berlino comincerà a modificare le cose. Ciò non toglie che i cattolici francesi rimarranno divisi. Altrove, come in Polonia, la necessità di far sopravvivere la nazione (e le inaudite persecuzioni contro vescovi e preti) salda subito la causa cattolica con quella nazionale e resistenziale.

Lei solleva la questione dell’uso delle armi: perché?

Perché contesto le letture che sono state fatte negli ultimi decenni. Sommariamente, dico questo: dapprima la Resistenza è stata interpretata come un atteggiamento esclusivamente armato (e a larga guida comunista); poi si sono rivalutate le forme di Resistenza “civile” e “non armata” (per esempio con l’opera di salvataggio di ebrei e perseguitati). Al punto, però, che questa seconda interpretazione – molto consona per i cattolici – ha confinato nel limbo le forme di lotta armata. Inoltre, si è spesso pensato di applicare al passato, a quel passato, gli schemi mentali odierni, compiendo un grave errore di prospettiva (che è poi lo stesso di coloro che pretendono che Pio XII avrebbe dovuto usare lo stesso linguaggio di Giovanni Paolo II o di Francesco).In verità, i cattolici della prima metà del Novecento erano stati tutti educati all’uso delle armi. La dottrina della “guerra giusta” era pacificamente accettata e, semmai, ogni Stato (e ogni episcopato) la volgeva a proprio vantaggio. Perciò non esistevano e non potevano esistere forme di non-violenza o di obiezione di coscienza. Non è un caso che opposizioni del genere si siano sviluppate all’interno del Reich, dove una Resistenza armata contro Hitler era impensabile. Non solo i ragazzi della Rosa Bianca, ma anche preti come Max Josef Metzger (che uomo straordinario!) o laici come i beati Franz Jägerstätter e Josef Mayr-Nusser ci hanno lasciato un’eredità inestimabile.Il vero problema di coscienza, allora, non era quello sull’uso delle armi, ma sulla liceità o meno di usarle in mancanza di un’autorità politica legittima. Ciò vale soprattutto per gli italiani e per i francesi, mentre altrove l’esistenza di un governo clandestino o in esilio non poneva questo problema.Anche figure leggendarie (e mitizzate) come Teresio Olivelli le armi le usavano o, quanto meno, le raccoglievano per farle usare da altri. Mi viene da sorridere, in questi giorni, nel pensare che Olivelli dirigeva i tiri dei cannoni italiani per uccidere i nemici russi… (ovviamente lo ricordo come un’amara battura, visto che allora era l’Italia il paese aggressore). Aggiungo ancora che, in tutta l’Europa occupata, conventi e canoniche nascondevano armi, senza porsi troppi scrupoli morali.

C’è una “specificità italiana”, e del cattolicesimo italiano, nella vicenda resistenziale?

La specificità è data dalla nostra storia: quella appunto di uno Stato aggressore (l’elenco dei paesi che abbiamo aggredito è bello lungo…), sconfitto sul campo e poi soggetto a un brusco cambio di regime e a una duplice occupazione straniera.La presenza cattolica nella Resistenza italiana è molto più vasta e numerosa di quel che di solito si pensa: paghiamo il prezzo di troppe rimozioni (degli stessi cattolici) e di troppi tentativi monopolistici (da parte soprattutto comunista). Esistono ampie aree del paese dove le formazioni cattoliche erano predominanti, mescolandosi magari con resistenti provenienti dal Regio Esercito, specie dai reparti alpini. Bisogna anche uscire dagli schematismi: nelle stesse brigate Garibaldi esistevano comandanti marcatamente cattolici (Aldo Gastaldi “Bisagno” in Liguria o Luigi Pierobon “Dante” in Veneto, per dirne solo due).Le differenze tra cattolici e comunisti emergevano – non solo in Italia – nelle modalità di conduzione della lotta armata, nel maggior o minore grado di ferocia da usare o nella valutazione dei rischi di coinvolgimento della popolazione civile. La formula fortunata dei “ribelli per amore” è però stata spesso distorta, quasi che i cattolici partigiani non volessero usare le armi. Identificava invece un atteggiamento diverso nei confronti del nemico (che andava combattuto, ma non odiato e, se possibile, salvato), oltre che un riferimento alle motivazioni anzitutto morali della Resistenza, prima che politiche.Oh, ovviamente, non dimentico lo straordinario impegno di salvataggio dei perseguitati per motivi politici, razziali o altro. La Resistenza armata e quella disarmata procedevano di pari passo ed esistevano forme di compenetrazione e di sinergia. Anche in questo caso evitiamo per favore schematismi o contrapposizioni rigide.

Uso delle armi oggi: si discute di “resistenza” e di “legittima difesa” nel caso dell’Ucraina. La storia può insegnarci qualcosa?

Questa è una domanda a trabocchetto… Anzitutto dovremmo imparare a leggere la storia per quanto riguarda i rapporti tra ucraini e russi che sono tormentati da oltre un secolo (e anche più). Il patriottismo e il nazionalismo ucraini hanno radici profonde e complesse. Ma non è questa la sede per parlarne.In secondo luogo, è evidente che la resistenza dell’Ucraina di oggi è diversa da quelle registrate tra 1939 e 1945. Ma ciò non toglie che quel paese stia compiendo una propria resistenza contro un invasore spietato, in difesa della propria indipendenza e della propria libertà. Perciò le similitudini affiorano, anche nella disperata ricerca di aiuti esteri e di armi. Lasciando da parte il caso italiano (dove pure gli aviolanci di materiali da parte alleata erano fondamentali), mi viene in mente l’esperienza francese sugli altopiani del Vercors e del Glières: qui si erano radunati centinaia di uomini refrattari al lavoro obbligatorio in Germania. Invocarono a lungo armi sufficienti per resistere all’inevitabile reazione dei tedeschi e dei poliziotti di Vichy. Ne ricevettero troppo poche e furono travolti e uccisi dai rastrellamenti nemici. Mettere in dubbio il diritto dell’Ucraina alla resistenza e alla legittima difesa, quindi, mi sembra ingiusto e, al limite, ipocrita. Altra, naturalmente, è la questione dell’invio delle armi e altra ancora quella del riarmo europeo e italiano. Non entro in tali questioni, adesso. Mi limito a dire che la storia ci educa sia alla complessità sia al realismo, che deve sempre – specie nel caso di un cristiano – spingere a ricercare una mediazione tra la purezza (intangibile!) dei principi e la crudezza delle situazioni concrete. Rifugiarsi nell’astrattezza di pur nobili principi significa purtroppo fuggire dalle proprie responsabilità.

Gianni Borsa

Redazione
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Pubblicato il 24 Aprile 2022
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