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Dantedì: Dante, il visionario rancoroso. Altri mondi e le pene dell’inferno

Proseguono le riflessioni curate dalla associazione Liceali Sempre di Legnano

legnano dante

A settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, finalmente ci si ritrova all’insegna della cultura e della storia, e chissà mai che sia anche l’occasione di riconoscere la bellezza della lingua italiana al tempo dell’abbreviazione da whatsapp e del volger in inglese ogni termine.

Se è vero che le parole sono musica, le composizioni dantesche ne sono l’elevata rappresentazione, a me viene in mente Bach pensando all’architettura che sottintende a un ritmo fatto di rime e contrappunti. Ma ancor più mi ha sempre colpito, e parlo della Divina Commedia, la visionarietà di un’opera che porta chi la legge in altri mondi, che richiedono stati di coscienza preparati all’uscita da sé, complice la guida di Virgilio psicopompo nelle terre incognite dell’aldilà.

Personaggi di una storia infinita presentano se stessi, il proprio soffrire (le famose pene dell’inferno), in un viaggio in cui le nebbie si affinano fino allo splendore del Paradiso, con un ritmo cinematografico che irretisce lo spettatore in un avvincente avventura.  Dico così perché l’aura di sacralità intorno al “sommo” comincia a venirmi a noia, e spero
tanto che dopo l’Alighieri, si cominci a pensare seriamente anche al Tasso e all’Ariosto (solo per fare due nomi), e non dico Carlo Porta perché sarei veramente eccessivo (ah, se il Manzoni non avesse sciacquato i panni in Arno…!).

Ad autori meno rancorosi dell’esiliato fiorentino che non perde occasione per ergersi a giudice, dividendo amici e nemici – e distribuendo pene – come se fosse egli stesso il Dio che separa il grano dal loglio, sebbene più leviatano che mistico (mi perdonerete, ma non percepisco molta spiritualità in quel poco che conosco della Commedia).
Perché, lasciatemela dire tutta, nelle sue storie c’è anche un grande rancore. E la Commedia (non a caso diventata solo poi divina), più che un percorso di salvazione, mi sembra pesare ancor più come ricerca della pena, in un contrappasso che non produce amore, ma disegna un’umanità avvilita dal dolore in cui, quando finalmente si esce a riveder le stelle, si è talmente stremati da non riconoscere nemmeno il calore e i colori della luce.

Gigi Marinoni, per Associazione Liceali Sempre

Redazione
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Pubblicato il 14 Ottobre 2021
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