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Decidere bene nell’era del rumore. Da New York a Varese: che cosa impariamo dalla vita (compressa) dei leader

"Dai boulevard di New York ai colli di Varese la bussola è la stessa. Prendersi “tempo lungo” in un mondo che corre è un atto politico e d’amore: verso noi stessi, verso chi ci vive accanto, verso la comunità". Una riflessione che parte dalla cronaca

panorama lago - foto di giuseppe geneletti

Quest’estate ho camminato a lungo per New York e il Nord-Est. Tornato a casa, il dibattito su Giorgia Meloni e il weekend con la figlia a New York, tra accuse e smentite, mi ha colpito per un motivo preciso: oggi i leader vivono H24 sotto pressione. Qui non esprimo un giudizio sul merito del caso: il punto è il processo, il contesto in cui oggi i leader sono chiamati a decidere e a spiegare le decisioni.

Eppure, conosco leader che, con umiltà e consapevolezza, si ritagliano tempo lungo tra un aeroporto e l’altro. Lo programmano con largo anticipo, spesso insieme a persone e mondi esterni al business. Cammini di Santiago, la tratta Assisi–La Verna, o anche soltanto un’ora al bordo del mare, connessi alla luce e al vento. Non è evasione: è manutenzione della lucidità. Da qui è nata una domanda semplice: quanto è cambiata la vita di un politico in cent’anni e cosa possiamo imparare noi, come cittadini?

Se torniamo agli anni Venti, la giornata del capo del governo era fatta di udienze in presenza, con una concentrazione di tempo e attenzione impensabile oggi. Immagina Palazzo Venezia: due fogli d’agenda, “mattina” e “pomeriggio”, una fila di ministri, prefetti, industriali, ambasciatori. Si entra, si espone, si decide. I fascicoli passano di mano, le note si scrivono a matita sul margine, le istruzioni scendono alla
macchina dello Stato. Le trasferte sono eccezioni rituali (cantieri, parate, visite) e non scandiscono la settimana. La decisione matura tra quattro mura, in tempi densi ma relativamente continui: poche interruzioni, poca comunicazione pubblica, nessun calendario sovranazionale che buchi il ritmo.

Negli anni Settanta cambia l’aria. Arrivano il G6/G7 e il Consiglio europeo, cioè un calendario esterno che comincia a chiedere presenza ai massimi livelli. Eppure, per un premier come Moro o Andreotti, gran parte dell’energia resta assorbita da Parlamento e coalizioni. Una “settimana tipo” può suonare così: mattino in Aula tra fiduce e interrogazioni, pomeriggio chiuso nelle stanze dei partiti a tessere equilibri, sera di telefonate con il Quirinale e i leader di maggioranza. Un paio di volte l’anno si vola al vertice dei grandi o a un Consiglio europeo ancora giovane; il resto si consuma tra ministeri e crisi interne. La comunicazione vive nella tv generalista e nei comunicati, i tempi tecnici sono più lenti di oggi: si media, si lima, si rinvia.

Oggi, la griglia è fitta. Il calendario europeo e globale non è più un appuntamento straordinario: è la spina dorsale della settimana. Tra giovedì e venerdì spesso si atterra a Bruxelles per un Consiglioeuropeo ordinario o straordinario; in primavera c’è il G7, in autunno il G20; in mezzo missioni bilaterali, vertici tematici, incontri con partner e istituzioni. Lunedì briefing e Consiglio dei ministri, martedì e mercoledì Aula, interrogazioni, interministeriali; tra un volo e le telefonate video con altri capidi governo, riunioni di sicurezza, dossier urgenti. La comunicazione non è un “dopo”: è parte del lavoro (conferenze stampa, social, dirette), perché ogni decisione va spiegata in tempo reale. Ne esce un’agenda spezzata in micro-slot da quindici o trenta minuti, con il “tempo lungo” da difendere a forza.

Le settimane si frantumano tra Roma, Bruxelles e il mondo: se non si costruiscono spazi protetti di riflessione, si riduce lo spazio per pensare in profondità e cresce la quota di scelte reattive, spesso simboliche, che illuminano il presente ma non sempre reggono alla prova del tempo.

Ho provato allora a guardare tre lenti, senza tifare. La prima sta negli anni Venti: i trattati di Benito Mussolini con l’Albania di allora furono una decisione rapida e verticale, tatticamente coerente con l’idea di espansione ma strategicamente miope per costi e sostenibilità. La seconda è il 1975: l’ingresso dell’Italia di Aldo Moro nel G6/G7, con un processo collegiale e un ritorno strategico alto in termini di reputazione e accesso ai tavoli che contano. La terza è oggi: il Protocollo Italia–Albania di Giorgia
Meloni sui flussi migratori, una scelta rapida e simbolicamente forte, con un dibattito tecnico-giuridico complesso sulla compatibilità e l’attuabilità.

Anche qui non è un giudizio sul merito, ma sul processo. Serve chiedersi come si è deciso, con quali verifiche e con quali esiti misurabili.
Questa non è solo una storia da Palazzo Chigi (simile nelle multinazionali che conosco). È la vita di tutti noi.

La pressione aumenta, ma la qualità delle decisioni non cresce da sola: va allenata. Vale a scuola quando si ridefiniscono orari e servizi; vale in Comune quando si incastra mobilità, sicurezza e bilancio; vale in un’associazione quando si programmano attività e volontari. Vale, soprattutto, nelle famiglie. Noi, ad esempio, abbiamo ritmi circadiani diversi. Ci chiediamo spesso perché pretendiamo che chi starebbe a letto fino a tardi debba iniziare la giornata alle sei del mattino, con scarso rendimento nelle prime ore di scuola. Abbiamo provato a trattarla come una piccola politica pubblica domestica: prima di tutto nominare bene la domanda (“vogliamo massimizzare la resa e il benessere mattutino senza stravolgere gli equilibri familiari?”), poi mettere davvero sul tavolo più strade: anticipare la sera, modulare l’orario d’ingresso quando possibile, riorganizzare la colazione e il trasporto e decidere insieme i criteri che contano (sonno reale, umore, puntualità, apprendimento nelle prime due ore).

Ci possiamo dare un periodo di prova, con una verifica dopo un mese e poi dopo tre: com’è andata? cosa teniamo? cosa cambiamo? Farlo così, senza colpevoli e senza eroi, abbassa i toni e alza la qualità delle scelte. È sorprendente quanta politica, nel senso più alto, ci sia in una sveglia. E non è solo percezione: in campioni italiani di giovani adulti, circa uno su cinque rientra nel cronotipo serotino, cioè rende meglio più tardi e soffre orari impostati ancora sull’Italia “agricola” delle 7:30; tradotto in una classe da 25 studenti, cinque–sette ragazzi potrebbero performare poco nelle prime ore e molto meglio dopo le nove.

Per Varese immagino una piccola palestra pubblica, aperta e gratuita. Quattro serate, con dati locali e problemi concreti. Una per capire i sistemi (energia, mobilità, cura). Una per simulare una decisione sotto pressione, con tempi stretti e informazioni parziali (rave party, crisi epidemica, inondazione). Una per imparare a spiegare una scelta difficile senza urlare. L’ultima per restituire: che cosa abbiamo
imparato e che cosa cambiamo da domani.

VareseNews potrebbe fare da ponte, mettendo insieme storie, dati semplici e strumenti pratici; le persone portano casi reali, le istituzioni ascoltano e rispondono. Il punto non è salvare o condannare un leader di turno. È alzare l’asticella per tutti: pretendere processi migliori, prove a supporto, controlli che funzionano. E, nello stesso tempo, allenarci come comunità a decidere bene senza pensare in fretta.

Dai boulevard di New York ai colli di Varese la bussola è la stessa: tempo lungo, mente lucida, responsabilità condivisa. Essere cittadini degni di questo pianeta comincia così. Con una scelta alla volta, fatta meglio. Prendersi “tempo lungo” in un mondo che corre è un atto politico e d’amore: verso noi stessi, verso chi ci vive accanto, verso la comunità. Non è evasione: è responsabilità. Decidere bene senza pensare in fretta.


Alle gocce di mare,
lente scivolano in gola.
Agli amici di una vita,
sei la loro festa.
A nebbie deliranti
che t’aspettano al varco.
Forse.
Un lavoro anche d’oro,

ma ti scava le budella.
Al silenzio sentinella
che veglia il tuo risveglio.
Sì.
Nonostante tutto.

di
Pubblicato il 21 Settembre 2025
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