Decidere bene nell’era del rumore. Da New York a Varese: che cosa impariamo dalla vita (compressa) dei leader
"Dai boulevard di New York ai colli di Varese la bussola è la stessa. Prendersi “tempo lungo” in un mondo che corre è un atto politico e d’amore: verso noi stessi, verso chi ci vive accanto, verso la comunità". Una riflessione che parte dalla cronaca

Quest’estate ho camminato a lungo per New York e il Nord-Est. Tornato a casa, il dibattito su Giorgia Meloni e il weekend con la figlia a New York, tra accuse e smentite, mi ha colpito per un motivo preciso: oggi i leader vivono H24 sotto pressione. Qui non esprimo un giudizio sul merito del caso: il punto è il processo, il contesto in cui oggi i leader sono chiamati a decidere e a spiegare le decisioni.
Eppure, conosco leader che, con umiltà e consapevolezza, si ritagliano tempo lungo tra un aeroporto e l’altro. Lo programmano con largo anticipo, spesso insieme a persone e mondi esterni al business. Cammini di Santiago, la tratta Assisi–La Verna, o anche soltanto un’ora al bordo del mare, connessi alla luce e al vento. Non è evasione: è manutenzione della lucidità. Da qui è nata una domanda semplice: quanto è cambiata la vita di un politico in cent’anni e cosa possiamo imparare noi, come cittadini?
Se torniamo agli anni Venti, la giornata del capo del governo era fatta di udienze in presenza, con una concentrazione di tempo e attenzione impensabile oggi. Immagina Palazzo Venezia: due fogli d’agenda, “mattina” e “pomeriggio”, una fila di ministri, prefetti, industriali, ambasciatori. Si entra, si espone, si decide. I fascicoli passano di mano, le note si scrivono a matita sul margine, le istruzioni scendono alla
macchina dello Stato. Le trasferte sono eccezioni rituali (cantieri, parate, visite) e non scandiscono la settimana. La decisione matura tra quattro mura, in tempi densi ma relativamente continui: poche interruzioni, poca comunicazione pubblica, nessun calendario sovranazionale che buchi il ritmo.
Negli anni Settanta cambia l’aria. Arrivano il G6/G7 e il Consiglio europeo, cioè un calendario esterno che comincia a chiedere presenza ai massimi livelli. Eppure, per un premier come Moro o Andreotti, gran parte dell’energia resta assorbita da Parlamento e coalizioni. Una “settimana tipo” può suonare così: mattino in Aula tra fiduce e interrogazioni, pomeriggio chiuso nelle stanze dei partiti a tessere equilibri, sera di telefonate con il Quirinale e i leader di maggioranza. Un paio di volte l’anno si vola al vertice dei grandi o a un Consiglio europeo ancora giovane; il resto si consuma tra ministeri e crisi interne. La comunicazione vive nella tv generalista e nei comunicati, i tempi tecnici sono più lenti di oggi: si media, si lima, si rinvia.
Oggi, la griglia è fitta. Il calendario europeo e globale non è più un appuntamento straordinario: è la spina dorsale della settimana. Tra giovedì e venerdì spesso si atterra a Bruxelles per un Consiglioeuropeo ordinario o straordinario; in primavera c’è il G7, in autunno il G20; in mezzo missioni bilaterali, vertici tematici, incontri con partner e istituzioni. Lunedì briefing e Consiglio dei ministri, martedì e mercoledì Aula, interrogazioni, interministeriali; tra un volo e le telefonate video con altri capidi governo, riunioni di sicurezza, dossier urgenti. La comunicazione non è un “dopo”: è parte del lavoro (conferenze stampa, social, dirette), perché ogni decisione va spiegata in tempo reale. Ne esce un’agenda spezzata in micro-slot da quindici o trenta minuti, con il “tempo lungo” da difendere a forza.
Le settimane si frantumano tra Roma, Bruxelles e il mondo: se non si costruiscono spazi protetti di riflessione, si riduce lo spazio per pensare in profondità e cresce la quota di scelte reattive, spesso simboliche, che illuminano il presente ma non sempre reggono alla prova del tempo.
Ho provato allora a guardare tre lenti, senza tifare. La prima sta negli anni Venti: i trattati di Benito Mussolini con l’Albania di allora furono una decisione rapida e verticale, tatticamente coerente con l’idea di espansione ma strategicamente miope per costi e sostenibilità. La seconda è il 1975: l’ingresso dell’Italia di Aldo Moro nel G6/G7, con un processo collegiale e un ritorno strategico alto in termini di reputazione e accesso ai tavoli che contano. La terza è oggi: il Protocollo Italia–Albania di Giorgia
Meloni sui flussi migratori, una scelta rapida e simbolicamente forte, con un dibattito tecnico-giuridico complesso sulla compatibilità e l’attuabilità.
Anche qui non è un giudizio sul merito, ma sul processo. Serve chiedersi come si è deciso, con quali verifiche e con quali esiti misurabili.
Questa non è solo una storia da Palazzo Chigi (simile nelle multinazionali che conosco). È la vita di tutti noi.
La pressione aumenta, ma la qualità delle decisioni non cresce da sola: va allenata. Vale a scuola quando si ridefiniscono orari e servizi; vale in Comune quando si incastra mobilità, sicurezza e bilancio; vale in un’associazione quando si programmano attività e volontari. Vale, soprattutto, nelle famiglie. Noi, ad esempio, abbiamo ritmi circadiani diversi. Ci chiediamo spesso perché pretendiamo che chi starebbe a letto fino a tardi debba iniziare la giornata alle sei del mattino, con scarso rendimento nelle prime ore di scuola. Abbiamo provato a trattarla come una piccola politica pubblica domestica: prima di tutto nominare bene la domanda (“vogliamo massimizzare la resa e il benessere mattutino senza stravolgere gli equilibri familiari?”), poi mettere davvero sul tavolo più strade: anticipare la sera, modulare l’orario d’ingresso quando possibile, riorganizzare la colazione e il trasporto e decidere insieme i criteri che contano (sonno reale, umore, puntualità, apprendimento nelle prime due ore).
Ci possiamo dare un periodo di prova, con una verifica dopo un mese e poi dopo tre: com’è andata? cosa teniamo? cosa cambiamo? Farlo così, senza colpevoli e senza eroi, abbassa i toni e alza la qualità delle scelte. È sorprendente quanta politica, nel senso più alto, ci sia in una sveglia. E non è solo percezione: in campioni italiani di giovani adulti, circa uno su cinque rientra nel cronotipo serotino, cioè rende meglio più tardi e soffre orari impostati ancora sull’Italia “agricola” delle 7:30; tradotto in una classe da 25 studenti, cinque–sette ragazzi potrebbero performare poco nelle prime ore e molto meglio dopo le nove.
Per Varese immagino una piccola palestra pubblica, aperta e gratuita. Quattro serate, con dati locali e problemi concreti. Una per capire i sistemi (energia, mobilità, cura). Una per simulare una decisione sotto pressione, con tempi stretti e informazioni parziali (rave party, crisi epidemica, inondazione). Una per imparare a spiegare una scelta difficile senza urlare. L’ultima per restituire: che cosa abbiamo
imparato e che cosa cambiamo da domani.
VareseNews potrebbe fare da ponte, mettendo insieme storie, dati semplici e strumenti pratici; le persone portano casi reali, le istituzioni ascoltano e rispondono. Il punto non è salvare o condannare un leader di turno. È alzare l’asticella per tutti: pretendere processi migliori, prove a supporto, controlli che funzionano. E, nello stesso tempo, allenarci come comunità a decidere bene senza pensare in fretta.
Dai boulevard di New York ai colli di Varese la bussola è la stessa: tempo lungo, mente lucida, responsabilità condivisa. Essere cittadini degni di questo pianeta comincia così. Con una scelta alla volta, fatta meglio. Prendersi “tempo lungo” in un mondo che corre è un atto politico e d’amore: verso noi stessi, verso chi ci vive accanto, verso la comunità. Non è evasione: è responsabilità. Decidere bene senza pensare in fretta.
Sì
Alle gocce di mare,
lente scivolano in gola.
Agli amici di una vita,
sei la loro festa.
A nebbie deliranti
che t’aspettano al varco.
Forse.
Un lavoro anche d’oro,
ma ti scava le budella.
Al silenzio sentinella
che veglia il tuo risveglio.
Sì.
Nonostante tutto.
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