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Burocrazia e inflazione appesantiscono il clima di incertezza e gli imprenditori sono stanchi

Federico Visconti, rettore della Liuc, affronta il tema dell'inflazione. Sabato 21 ottobre parteciperà come relatore a Statisticall il festival della statistica e della demografia di Treviso

Economia varie

Che fine farà l’inflazione” è il titolo una tavola rotonda di Statisticall, il festival della statistica e della demografia in programma dal 19 al 22 ottobre a Treviso, a cui parteciperà il rettore dell’università Liuc di Castellanza Federico Visconti e che si terrà sabato 21 ottobre con inizio alle 11 e 30.

Professor Visconti, spesso nei dibattiti tra economisti si distingue tra inflazione da domanda e inflazione da rincaro delle materie prime. Perché si fa questa distinzione se poi l’effetto è sempre lo stesso, cioè la svautazione della moneta e la perdita di potere d’acquisto?
«Dovrebbe chiederlo agli economisti. Al netto della battuta, quello che succede è che prima un cappuccino e brioche lo pagavo due euro e settanta, oggi lo pago 3 euro. Questa si chiama inflazione. Certo che se la domanda scarseggia e vendo meno cappuccini, allora alzo i prezzi. Per quanto riguarda l’inflazione da materie prime, noi l’abbiamo sempre patita. Solo due anni fa avevamo un’inflazione dovuta all’energia. Qualunque sia la causa scatenante, l’inflazione è un argomento che interessa molto perché tocca il portafoglio del cittadino. Fare la distinzione tra inflazione da domanda e da materie prime serve probabilmente a definire le relative contromisure da prendere: se nasce dalla domanda, devi tutelare i redditi e proteggere delle categorie. Se nasce dalle materie prime, bisogna intervenire per calmierarne il prezzo, come, per esempio, è avvenuto con il caro bollette. Quindi, la mano che hanno dato alle aziende sulle bollette potrebbe essere stata una contromisura per rispondere a un’inflazione da materie prime. Il carrello tricolore invece potrebbe essere una manovra per proteggere la domanda».

Con l’inflazione si somma incertezza a incertezza che per le imprese è motivo di stress. In provincia di Varese abbiamo assistito negli ultimi anni alla vendita di aziende storiche, l’ultima a vendere, in ordine di tempo, è stata un’azienda giunta alla quarta generazione. C’è una relazione tra i due fenomeni?
«Il tema della crescita e di modelli di governance differenti in azienda è  da corsi e ricorsi storici. A tutto ciò si somma un clima di strutturale incertezza che è difficile contrastare anche sul piano delle argomentazioni e soprattutto della memoria storica. Dire che è già accaduto e che si sono attraversate crisi profonde e superate, non serve. Probabilmente c’è un effetto accumulo e le famiglie proprietarie non hanno più la stazza per reggere la pressione dell’incertezza. E forse anche gli imprenditori si sono stancati».

Il mismatch delle competenze, cioè il fatto che le aziende cerchino lavoratori con determinati profili e non riescano a trovarli, è un fattore che alimenta il clima generale di incertezza?
«Se un’azienda cerca una figura con competenze di economia circolare e sostenibilità ma non è chiaro se in azienda arriva uno con competenze di economia oppure uno che sappia muoversi nella miriade di modelli interpretativi degli standard Esg (Environmental, social, and corporate governance, ndr), non solo alimenta l’incertezza ma anche la stanchezza dell’imprenditore. Sono stati creati veri e propri mostri analitico-interpretativi che espongono le imprese alla mercé del burocrate medio. Un bravo ingegnere che viene assunto da un’azienda per portare dei risultati deve prima studiare e perdere tempo per capire come muoversi in quel labirinto. Poiché la burocrazia non aiuta le aziende e si va a sommare a uno scenario di affaticamento e incertezza complessivo, alcuni imprenditori preferiscono gettare la spugna. E parliamo di aziende che vendono bene perché hanno un valore».

Cosa servirebbe alle aziende in momenti come questo?
«Paradossalmente, visto che parliamo di incertezza, questi tempi richiedono logiche di programmazione. Per esempio, pianificare gli acquisti da qui a sei mesi cambiando le fonti di approvvigionamento per diversificare il rischio e ottimizzare i prezzi. Le aziende più grandi e strutturate lo fanno, attenuando così il peso dell’incertezza. Quelle meno strutturate fanno più fatica ed è il motivo per cui lasciano. Essere alla mercé del quotidiano non è una bella sensazione per un imprenditore. L’altra riflessione è che la dimensione dell’azienda è relativa, quello che per noi in questa provincia è grande paragonato ad altri contesti è piccolo. Una cosa è certa: nei mercati maturi cresci solo comprando qualcun altro e portando via quote di mercato.  Acquisire aziende è un mestiere vero e proprio».

Che cosa vuol dire “è un mestiere”?
«Voglio dire che non si acquista mai  un’azienda a caso. C’è chi lo fa, ma non è il mio modello. Quando si acquisisce un’azienda ci sono dei passaggi precisi: reperire i capitali, identificare un’azienda target con importanti coerenze e costruire un’integrazione. Quest’ultimo passaggio è fondamentale. Se compri, per fare un esempio, un’azienda a Firenze, non è sufficiente mandarci qualcuno per vedere come va. Bisogna valutare le produzioni che puoi spostare, se puoi centralizzare l’amministrazione e i conti, devi razionalizzare il personale per evitare doppioni. Insomma, alla complessità da gestire, a cui deve far fronte l’imprenditore nelle condizioni di incertezza di cui si parlava, si aggiunge altra complessità con l’acquisizione. Ecco perché è un mestiere e l’imprenditore, che è cablato sulle sue quattro mura, non lo fa. Almeno, nel Varesotto non vedo campioni di acquisizione».

Redazione
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Pubblicato il 20 Ottobre 2023
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