Omicidio Ravasio, Dhaibi nega ogni responsabilità: “Mi sono trovato in carcere senza aver fatto niente”
Dhaibi, assistito da un'interprete, ha parlato davanti alla Corte d'Assise nell'udienza in cui tutti aspettavano di vedere sul banco dei testi Adilma Pereira Carneiro

«Mi sono trovato in carcere senza aver fatto niente». Ha negato ogni responsabilità davanti alla Corte d’Assise di Busto Arsizio Mohamed Dhaibi, uno dei sette imputati chiamato a rispondere dell’omicidio di Fabio Ravasio, ucciso il 9 agosto dello scorso anno in un agguato orchestrato in modo da far credere che l’uomo fosse stato investito da un pirata della strada poi datosi alla fuga lungo la provinciale tra Busto Garolfo e Parabiago.
Dhaibi, assistito da un’interprete, ha parlato davanti alla Corte presieduta da Giuseppe Fazio (a latere Marco Montanari) lunedì 6 ottobre, nell’udienza in cui tutti aspettavano di vedere sul banco dei testi Adilma Pereira Carneiro, la 49enne accusata di essere la “mente” del piano criminale che ha ucciso Fabio Ravasio. Le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche, però, non sono arrivate in tempo, e l’esame dell’imputata è slittato alle prossime udienze. Così a raccontare la sua verità è stato Dhaibi, in un esame segnato dalle continue contestazioni del pubblico ministero Ciro Caramore, che davanti all’ennesima risposta ritenuta lacunosa è arrivato a dire apertamente all’imputato: «Non faccia finta di non capire».
Proprio la lingua parlata dall’imputato, peraltro, è stato il primo punto di scontro non solo con la pubblica accusa, ma anche con le altre difese. Se il sostituto procuratore ha infatti messo in discussione la capacità di Dhaibi di comprendere e parlare l’italiano anche facendo sentire dei messaggi vocali inviati dall’imputato, lo stesso hanno fatto a più riprese anche le difese degli altri imputati. In primis Massimo Ferretti, che ha scelto di rendere spontanee dichiarazioni proprio per sottolineare di aver sempre comunicato in italiano con l’imputato.
Non solo. Dhaibi – in Italia senza continuità dal 2007, anno della prima fotosegnalazione, e da 18 anni in cerca di un impiego, secondo quanto ha riferito in aula, sostenendo di mantenersi con commissioni spicciole che gli fruttavano 5 o 10 euro e magari un pasto, tra cui, nonostante abbia negato di spacciare, anche l’acquisto e la consegna di stupefacenti – è stato messo più volte alle strette dal pubblico ministero anche con date, orari e cellule telefoniche agganciate durante le chiamate effettuate con gli altri imputati e con la figlia della “mantide”, a sua volta indagato per l’omicidio.
Date e orari che l’uomo non ha saputo spiegare, soprattutto sostenendo, tra le lacrime, di aver subito uno «shock» al momento dell’arresto che gli avrebbe fatto perdere la cognizione del tempo. Restano, però, i 62 contatti telefonici tra aprile e agosto tra Dhaibi e Adilma Pereira Carneiro, e oltre una ventina di chiamate, alcune senza risposta, tra l’uomo e la figlia della “mantide”, Ariane Pereira Bezerra da Silva, in una sola settimana: proprio la settimana – ed è su questo tasto che ha battuto la pubblica accusa – in cui secondo Massimo Ferretti era in corso la ricerca di un killer per l’omicidio di Ravasio.
Dhaibi ha negato di essere l’uomo immortalato dalle telecamere in bicicletta mentre il 9 agosto dello scorso anno percorreva via Vela, la via dell’incidente costato la vita alla vittima, e anche di essere stato sulla provinciale nei momenti in cui si consumava il delitto. Di fronte al dato di fatto delle cellule telefoniche agganciate dal suo smartphone, si è giustificato dicendo di aver acquistato droga nella zona di Busto Garolfo: secondo quanto dichiarato in aula dall’imputato, non solo non si sarebbe mai gettato a terra fingendo un malore per bloccare il traffico nel tratto di via Vela in cui verrà poi investito Fabio Ravasio, ma nessuno glielo avrebbe mai nemmeno chiesto. Così come non avrebbe mai partecipato alla ricerca di un’auto per investire la vittima. E anche in ospedale sarebbe andato solo su richiesta di Massimo Ferretti, dopo averlo sentito parlare di «incidente» e «Adilma» e aver creduto che proprio la “mantide” fosse stata vittima di un incidente.
Quello che invece l’uomo ha ammesso è di aver collaborato all’occultamento dell’auto nel cortile della casa di via delle Orchidee, senza però conoscerne il motivo. «Quando mi hanno detto il motivo per cui ero stato coinvolto in questa vicenda è stato uno shock – le sue parole, riferite alla Corte d’Assise dall’interprete -: non capivo cosa mi stesse succedendo, non immaginavo che queste persone potessero accusarmi di essere coinvolto e non avevo mai immaginato che potessero arrivare al punto di uccidere».
La difesa dell’uomo a valle dell’udienza ha chiesto la revoca della misura cautelare e, in subordine, l’attenuazione con l’obbligo di firma: secondo l’avvocato di Dahibi, infatti, dopo l’esame non sussisterebbero più le esigenze cautelari, visto anche il consenso dell’uomo all’applicazione del braccialetto elettronico. Non così secondo la Procura: per il pubblico ministero, infatti, «l’esame non ha certo portato a ritenere scemate le esigenze cautelari», anzi piuttosto il contrario, e sussisterebbe tuttora «un gigantesco pericolo di fuga».
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