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Ivo Paiusco a New York, anzi a Boston

 Boston è per antonomasia la città cattolica degli Stati Uniti - La sua diocesi conta circa 500 parrocchie

Caro direttore, mi trovo a Boston per il fine settimana,  che qui è lungo perchè lunedì è festa. Sarebbe il Columbus Day, ma poichè Colombo è accusato di essere stato razzista e sfruttatore degli indigeni hanno ribattezzato la festa intitolandola ai nativi americani. Qui intanto molta opinione pubblica mastica amaro perchè il cattolico Kavanaugh è stato comunque eletto alla Corte suprema. Boston è per antonomasia la città cattolica degli Stati Uniti. La sua diocesi conta circa 500 parrocchie, ma sino a pochi anni fa erano più di 700. L'impatto sul mondo cattolico dei vari scandali sessuali che hanno coinvolto i sacerdoti è stato molto forte e molti fedeli si sono allontanati, ma ora – così ci diceva don Paolo, un sacerdote nostro amico che vive qui – le cose sembrano andare un poco meglio tanto è vero che lui viene spesso ringraziato dalla gente per strada che lo vede vestito da prete. Siamo riusciti a salutare velocemente anche l'amico don Sfefano Colombo, legnanese, parroco a San Clemente in un sobborgo di Boston, Sommerville.

Fatta questa premessa però vorrei concentrarmi su un  altro argomento. La nostra visita a Boston è stata propiziata dal fatto che mio genero sta frequentando in questi giorni i corsi della Harvard Business School, forse la più rinomata scuola post universitaria di economia al mondo. Gli studenti hanno la possibilità di introdurre gli ospiti nel campus quando non ci sono lezioni, e così è stato. A questa sessione di studi di nostro genero partecipano persone di più di 70 diversi paesi del mondo, che vengono poi suddivisi in gruppetti di una decina di unità che, sotto la guida di uno o piu tutor, discutono i più disparati case studies aziendali e di politica economica internazionale. L'obiettivo dichiarato da Harvard è quello di formare la classe dirigente che sarà in grado di cambiare – ovviamente i  meglio – il mondo.

Ma, tralasciando l'ideologia di Harvard, quello che stupisce è la fantascientifica location. La business school è una città nella città, distinta dalle altre facolta universitarie frequentate da chi si deve ancora laureare. Ci sono studenti che frequentano corsi di specializzazione annuali e altri, come mio genero, che fanno solo alcune settimane residenziali, compatibilmente  con gli impegni di lavoro di ciascuno.

Gli alloggi sembrano una suite di un albergo di lusso, le camere sono piccole ma con tutto il necessario, nelle hall trovi tutti gli snack, frutta e spuntini immginabili, oltre a copie gratis di tutti i giornali finanziari.

La mensa è efficiente e di alto livello. Siamo stati ieri a colazione qui e c'era l'imbarazzo della scelta. Insomma gli studenti – che pagano una botta di soldi – sono però molto coccolati in modo da non avere distrazioni durante le ore di lavoro, che, si noti bene, vanno anche oltre l'orario di cena.

La biblioteca è qualcosa di spettacolare e nei sotterranei della stessa, dove conservano il desk originale del primo stock exchange di New York, c'è un corridoio tappezzato da vignette umoristiche di argomento "economico-aziendale". Ovviamente dentro la sede della business school c'è pure il negozio che vende i gadget di tutti i tipi con il logo della scuola: felpe, magliette, cappellini, portachiavi, tazze e quant'altro dove domina il colore cremisi (crimson).

Una meraviglia delle meraviglie è il campus sportivo e tenete conto che Harvard non è rinomata come eccellenza nello sport. In uno spazio che potrebbe essere quello occupato dagli stabilimenti della Franco Tosi, ma forse più grande, c'è uno stupendo stadio per il football americano, lo stadio di hockey su ghiaccio, quello di pallacanestro (dove ha giocato Jeremy Lin, l'unico prodotto sportivo di livello Nba prodotto da Harvard negli ultimi 50 anni), la piscina olimpionica, i campi da tennis. Vi ho solo dato un breve cenno, forse le foto renderanno di più. Altro dettaglio curioso è che nei bagni del campus, per una questione di igiene (qui ci tengono moltissimo) per aprire la porta di uscita e non farti toccare il  maniglione, puoi sfiorare con la mano una fotocellula e la porta si apre davanti a te. Fantastico! Dal quasi tugurio della colazione servita al Catholic Worker di New York a qui, penso di aver trovato nel giro di due giorni i due estremi dell'America. Speriamo che le menti eccelse che si formano in queste aule siano in grado di pensare anche a quei poveretti degli homeless! Boston è una città universitaria, con più di trecentomila studenti e una decina di università tra cui il famoso MIT e il Boston College dei gesuiti.

La città merita una visita. Non  c'è la frenesia e il senso di soffocamento che si può provare a NY e i quartieri periferici sono molto ordinati. Ieri pomeriggio abbiamo visitato il museo di Isabella Gardner, una benefattrice amante delle arti morta nel 1924. Questa donna ereditò una fortuna dal padre e girò il mondo acquistando opere d'arte che poi fece sistemare in un edificio di quattro piani costruito recuperando un palazzo spagnolo medioevale con  chiostro interno. Per suo esplicito volere dopo la sua morte nessuno può spostare la collocazione delle opere da lei scelta. Nel frattempo anni fa sono riuscitia rubare diverse opere tra cui un Vermeer e un Rembrandt, non ancora recuperati. Comunque sti americani avranno pure pagato quello che hanno preso, ma hanno portato al di là dell'oceano dall'Europa credo molto più di quanto asportò dall'Italia Napoleone. Una curiosità: se ti chiami Isabella entri gratis al museo.

Per ultimo abbiamo fatto una breve visita anche alla rievocazione e del Boston Tea Party: c'è un vecchio veliero (credo non autentico) ormeggiato a Seaport che ricorda la rivolta degli abitanti di Boston contro le tasse imposte dalla madrepatria inglese. D'obbligo qui comperare il the delle indie.

Oggi si torna a New York.

Alla prossima.

Ivo Paiusco

Marco Tajè
direttore@legnanonews.com
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Pubblicato il 09 Ottobre 2018
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