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25 aprile: l’intervento del decano don Fabio Viscardi

“C’è un tempo per la guerra e c’è un tempo per la pace”, ha esordito il sacerdote nella cerimonia al cimitero

“C’è un tempo per la guerra e c’è un tempo per la pace”. Così recita nella Bibbia il libro del Qoelet in un passo ricco di suggestione dentro un testo tato enigmatico quanto attuale.
Una serie di contrasti: c’è un tempo per… un tempo per… che culminano appunto nell’affermazione:
“c’è un tempo per la guerra e c’è un tempo per la pace”. E l’uomo della Bibbia sa bene che su questa terra c’è un tempo per la pace, ma c’è anche – purtroppo – un tempo per la guerra.

Per una di quella strane associazioni mentali che sfuggono al nostro controllo questa frase si è fatta strada nella mia testa in occasione di un fatto di cronaca della scorsa settimana assolutamente privo di importanza, ma che si presta quale invito a riflettere su quel momento delicato e cruciale in cui la guerra deve cedere alla pace. Una linea sottile, non sempre ben definibile su cui molto ha da dire una intelligente e pacata rilettura dell’esperienza della resistenza e della guerra di liberazione.

Ma veniamo a questo episodio – lo ripeto – assolutamente banale.
La scorsa settimana è deceduto un certo Ronald Lee Emay, meglio noto come il sergente Hartman di Full metal Jacket, celebre film di Stanley Kubrik. Un sergente che con metodi spicci e brutali trasforma ragazzotti della buona borghesia in soldati da prima linea. Giovani arruolati non per difendere la patria (la libertà, il bene comune… e tanti altri valori diremmo noi) ma per uccidere. Soldati educati ad uccidere per primi, prima che l’altro uccida te. Senza rispetto per nessuno e senza legami di simpatia tra di loro. Costruiti per uccidere e dunque inadatti alla pace: “una volta marine, per sempre marine”.

Vi invito se ne avrete il tempo e la voglia di andarvi a rileggere quella sorta di preghiera ‘credo’ del marine che inizia con l’espressione: “Il fucile è il mio migliore amico”. Certo, è vero, l’ultima parola è un’espressione di pace: “e non ci siamo più nemici, ma pace”. Tuttavia il senso è quella di una pace che nasce dalla distruzione totale del nemico, come quella descritta da Tacito (nel De Agricola) che a proposito dell’impero romano scriveva: “ubi solitudinem faciunt, pacem appellant” (chiamano pace laddove hanno ridotto tutto ad un deserto).

Ora, alla luce di queste considerazioni e dall’insegnamento che ci viene dalla guerra partigiana e di liberazione (pur con tutte le sue ambiguità) vorrei tentare di ricostruire una sorta di “credo laico” (mi si passi questa espressione) per cercare di definire questa sottile ma decisiva linea che separa il tempo della guerra dal tempo della pace.
 
– Una guerra è fatta per finire. E non finisce con l’annientamento (l’azzeramento) del nemico
– Una guerra non si fa per uccidere. Questo sarà inevitabile, a volte anche necessario ma uccidere non è né la sua motivazione né il suo scopo.
– Una guerra – se si deve fare – si fa per un valore (un ideale): la libertà, la patria, il bene comune…
– Anche una guerra può e deve costruire legami. Se non altro tra chi, magari con motivazioni diverse, si trova da una stessa parte del fronte
– E viene il momento in cui occorre deporre le armi e lottare per la pace. Niente è meno pacifico della pace.
– E viene il momento in cui i sentieri ciechi dell’odio lasciano il posto alla strada della giustizia. Una giustizia che non è mai tale se non alimentata da quella linfa vitale che si chiama ‘perdono’. 
– E viene il momento in cui si impara la pietas per il nemico, quale espressione di una umanità grande (magnanimità) specie laddove il cosiddetto nemico ha concluso il suo pellegrinaggio terreno. 

Ecco perché – e concludo – sono qui per benedire tutti coloro che nella tragedia della guerra hanno perso la vita. Benedire tutti non vuol dire equiparare. Non possiamo confondere il male con il bene e il bene con il male. Il giudizio storico rimane e deve rimanere, ma la lezione che dobbiamo trarre è quella di crescere in umanità. E dentro qui si crea lo spazio per benedire: dire bene di quanti hanno dato la vita per la libertà, per il paese, per il bene comune e chiedere al Signore che rivesta tutti – compresi dunque quanti hanno fatto scelte diverse – nella luce della sua per noi insondabile misericordia. 

don Fabio Viscardi, decano di Legnano

Marco Tajè
direttore@legnanonews.com
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Pubblicato il 25 Aprile 2018
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