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Pandemia, lockdown e suicidio. Quali correlazioni? Il parere di una psicoterapeuta

Secondo Miriam Nipote, psicologa e psicoterapeuta varesina, non ci sono ancora studi e dati sufficienti ma gli stili di vita dannosi potrebbero aver aumentato il rischio in un momento così particolare

La depressione nel tempo dell’accelerazione – Conferenza con Gianni Francesetti

Coronavirus e suicidi. C’è una correlazione? Al momento non c’è una correlazione diretta e nemmeno dati che provino un aumento del numero di persone che si sono tolte la vita. La domanda, però, se la stanno ponendo in molti e tra gli psicologi e psicoterapeuti circolano pubblicazioni in tal senso. Abbiamo chiesto un approfondimento sul tema a Miriam Nipote, psicoterapeuta che ha tenuto compagnia ai lettori di Varesenews durante il periodo di lockdown con una serie di video che hanno approfondito i vari aspetti della tenuta psicologica in un momento difficile e mai vissuto prima (li trovate qui).

Alienante, surreale, lontana da ogni immaginazione, totalmente inaspettata: questi solo alcuni degli aggettivi che hanno descritto il culmine dell’esperienza da cui non siamo del tutto usciti.
Abbiamo sentito parlare di virus, rischio di contagio, dati sui decessi, terapie intensive, diffusione nel mondo, crisi economica, disoccupazione ma forse troppo poco si è parlato di un aspetto delle persone che è stato altresì fortemente impattato dall’accaduto. Un aspetto altrettanto importante sul tema della salute. Un aspetto che può aver a che fare non solo con quello che ci succede, ma con come lo viviamo, interpretiamo e come riusciamo a rispondervi.
Il nostro mondo psicologico!

La situazione della pandemia ha infatti rappresentato un evento totalmente nuovo per la psiche di tutti noi, suscitando differenti reazioni: chi ha saputo cogliere elementi positivi nella difficoltà, chi ha avuto una buona resilienza, cioè la capacità di riprendersi e reagire adeguatamente agli stress, chi ha sviluppato dei disturbi psicologici mai avuti prima, chi purtroppo si è trovato in gravi difficoltà oggettive e chi ha vissuto un’amplificazione di difficoltà emotive e psicologiche già esistenti.
E, nei casi più estremi, può tutto questo aver accentuato i rischi sulla popolazione di arrivare a un punto di esasperazione? Un punto tale da sentire di non riuscire più a farcela e di pensare di porre fine autonomamente ad una vita che in quel momento può significare solo fonte di difficoltà insormontabili?

Non sono ancora attualmente disponibili studi scientifici in letteratura sulle percentuali del suicidio in questi mesi, ma diversi studi hanno raccolto dei dati che possono aiutare a fare delle stime su questo rischio, in unione ai modelli teorici sul tema.
Partiamo, facendo un piccolo passo indietro, da quali sono gli elementi considerati in letteratura dei fattori di rischio per il suicidio, aldilà di questo periodo.
Premettendo che il tema è molto complesso, tra i fattori considerati rilevanti troviamo la sofferenza mentale, le difficoltà di comunicazione e nelle relazioni, l’impulsività nel prendere decisioni e l’aggressività.
E, avreste mai detto che lo stile di vita può avere delle connessioni addirittura con il suicidio?! Interessanti studi ci mostrano che vari comportamenti, come il fumo di sigarette, l’uso di alcool e la sedentarietà sono associati a un rischio di suicidio. Se da un lato è vero che tali azioni sono conseguenze di disagio, dall’altro è vero anche il contrario: agire questi comportamenti accentua i disagi poiché peggiora la salute, crea stanchezza, affievolisce la voglia di agire e può peggiorare le nostre relazioni.

Ma molti si chiedono “Cosa passa per la testa a una persona che decide di togliersi la vita? Cosa sente?”
Per comprendere meglio può aiutarci un importante riferimento. La Teoria interpersonale del suicidio (Van Orden et al, 2010) che concettualizza l’esistenza di tre variabili necessarie e congiuntamente sufficienti per creare il comportamento suicidario: la presenza di sofferenze percepite come gravi, pesanti e insormontabili; la minaccia o la perdita del senso di appartenenza a qualcosa di importante come la famiglia, il lavoro o un gruppo; e infine l’acquisita capacità di compiere un atto letale di autolesionismo, costituita da una diminuita paura della morte e da un’aumentata tolleranza al dolore attraverso ripetuti precedenti atti di autolesionismo.
Risulta evidente come le conseguenze di un evento come quello della pandemia possono influire sui primi due concetti di questa teoria: lutti, crisi economiche e terrore della malattia possono essere stati vissuti come esperienze ingestibili e insormontabili e le persone possono aver perso il loro senso di appartenenza al lavoro nei casi più gravi o alla comunità per via del distanziamento sociale.

E, vediamo più nello specifico, il rapporto tra crisi economica, disoccupazione e tassi di suicidio.
Studi precedenti a questo periodo hanno appunto indagato l’effetto della disoccupazione sul suicidio ed hanno osservato che il rischio del suicidio aumentava del 20-30% quando associato a disoccupazione. Dati che provengono dallo studio di periodi di crisi economica hanno mostrato che l’aumento dei suicidi è stato preceduto dall’aumento dei tassi di disoccupazione.
Alti studi mostrano le correlazioni del maggior rischio di suicidio a periodi di epidemie: i morti per suicidio sono aumentati negli USA durante l’influenza del 1918-19 e durante l’epidemia della SARS ad Hong Kong nel 2003.

Ma questo periodo non è stato e non è solo caratterizzato dalla paura del contagio, dal distanziamento sociale e dalla crisi economica.
Questo periodo riguarda purtroppo chi, il COVID-19, l’ha vissuto sulla sua pelle.
Chi ha avuto gravi crisi respiratorie; chi si è sentito dire, in un momento in cui il mondo era impreparato di fronte a questo nuovo virus sconosciuto: “Lei ha il COVID-19”; chi è stato portato in ospedale senza poter vedere più nessuno; chi è stato nei reparti di terapia intensiva.
Chi, può essere sopravvissuto a tutto questo, ma non senza aver vissuto un vero e proprio trauma.
A tal proposito uno studio in Cina ha evidenziato che il 96% dei pazienti COVID-19 ricoverati avevano sviluppato sintomi significativi del disturbo post-traumatico da stress. Se a questo aggiungiamo diverse evidenze scientifiche che mostrano che patologie quali depressione, disturbo post traumatico da stress, disordini del sonno sono associati a ideazioni suicidarie, tentativi di suicidio e morti per suicidio, possiamo considerare i pazienti ricoverati per COVID-19 come soggetti a rischio da un punto di vista psicologico e, in ultimo, a rischio di suicidio.

Tutti dati, questi, che suggeriscono l’importanza e la necessità di interventi preventivi da attuare in casi e circostanze che la letteratura suggerisce come a rischio.

Continuando a vedere quanto di più attuale per esaminare l’impatto della pandemia COVID-19 sul suicidio, diamo un’occhiata ad una spiegazione potenzialmente arricchita rispetto alle teorie precedenti. L’ “I Model” di Finkel concettualizza tre fattori che interagiscono nel fenomeno del suicidio, applicandoli alla realtà di questo periodo: gli Istigatori, i Sollecitatori e gli Inibitori.
Tra gli Istigatori, stimoli ambientali e contestuali che offrono una certa propensione al gesto del suicidio, possiamo trovare l’isolamento sociale dovuto alla necessità di distanziamento e le possibili situazioni di precarietà o di perdita di lavoro.
Tra i Sollecitatori, che rappresentano in particolare predisposizioni della persona o delle situazioni relazionali in cui si trova che ancora possono favorire o maggiormente predisporre al gesto, troviamo l’accentuarsi, per numero e per intensità delle patologie mentali a causa del terrore e dell’incertezza percepiti davanti alla pandemia.
E quanto a gli Inibitori? Questi sono forze che, di contro, diminuiscono o appunto inibiscono la probabilità del gesto. Ed ecco qui, quale può essere stata una delle maggiori criticità di questo periodo: una pandemia che nei casi più gravi può aver chiuso le persone in una sorta di sbilanciamento tra presenza di problemi e mancanza di accesso alle risorse per cercare di star bene e di riuscire a farvi fronte. Purtroppo infatti questi Inibitori sono risultati deboli rispetto alla forza degli altri due fattori: non è stato così facile accedere a trattamenti psichiatrici o psicologici che rappresentassero un aiuto e non erano disponibili realtà che potessero rappresentare grandi forme di sostegno come le palestre o anche le chiese. E in questi fattori protettivi, rientrano, senza andare troppo lontano, l’impossibilità di uscire, di evadere e di stare a contatto con le persone care.

Alla luce di evidenze scientifiche riguardanti questi fattori, l’ “I Model” ha denominato la pandemia del COVID-19 una “tempesta perfetta” di condizioni antecedenti al suicidio.
L’isolamento sociale, che troviamo tra Istigatori, risulta correlato da evidenze scientifiche al rischio di suicidio. Anche l’abuso di alcool o di altre sostanze, che potrebbe risultare l’esito di un incrocio tra Sollecitatori e Istigatori, come già anticipato sopra, risulta associato ad un maggiore rischio di suicidio. Inoltre ci sono dati che evidenziano un aumento della vendita di alcool sin dall’inizio della pandemia. Dati che avrebbero dovuto suggerire forse delle restrizioni della vendita.
E perché questo aumento? Nel momento in cui sono mancate delle risorse utili a distrarsi o comunque a fornire benessere per riprendersi dagli stress che si stavano vivendo, l’alcool è stato vissuto apparentemente come un inibitore del malessere, cioè una delle poche possibili consolazioni e, ahimè, una delle poche accessibili. Peccato però, che gli studi ci mostrano che il beneficio è solo a breve termine a dispetto in questo caso di possibili conseguenze molto gravi!
Un altro aspetto importante che contiene in sé sia Istigatori che Sollecitatori è rappresentato dal fatto che in alcuni paesi, come il Kentucky, i servizi di soccorso online che si occupano di violenze domestiche hanno ricevuto un aumento di richieste da quando è iniziato il distanziamento sociale. Se a questo dato affianchiamo il dato già conosciuto che minacce di violenze al partner sono correlate a minacce di suicidio e di omicidio del partner, possiamo dedurre che, le condizioni di violenze domestiche sono risultate più probabili in questo contesto storico sociale e di conseguenza risulta più probabile il rischio di suicidio ad esse correlato.

Che cosa ci fanno pensare dunque tutti questi dati?
In virtù di ciò sarebbe opportuno monitorare l’andamento dei suicidi e stabilire di conseguenza all’occorrenza, in quelle identificate dagli studi come zone di rischio e vulnerabilità, delle opportune misure preventive. Da questi studi possiamo infatti concludere che il rischio di suicidio e in generale dell’acuirsi per numero e per intensità delle patologie mentali, può considerarsi maggiore in questo periodo e pertanto da non sottovalutare. Sarebbe quindi opportuno essere proattivi.

Cosa si intende per comportamenti proattivi?
Una serie di cose possono dipendere da aspetti istituzionali, governativi e sanitari: monitorare costantemente l’andamento dei suicidi, offrire delle risorse online per aiutare nella gestione delle difficoltà che possono risultare le più diffuse, offrire l’accesso a supporto psicologico online, offrire servizi di supporto in caso di crisi e ideazioni suicidiarie, monitorare l’uso di alcool ed eventualmente limitarne la vendita, accertarsi della continuazione del funzionamento dei servizi di supporto in caso di violenze domestiche.
Ma i dati riportati ci offrono degli spunti di cura e di riflessione che ricadono anche sulla singola nostra responsabilità: risulta sicuramente importante, sempre ma in particolare in questo periodo, prestare attenzione ai comportamenti legati ad uno stile di vita che risulti il più sano possibile, diventare consapevoli delle proprie difficoltà emotive e psicologiche e saper chiedere sostegno e aiuto psicologico al fine di poter avere uno spazio proprio dove esplorare possibili alternative che magari la nostra mente non è in grado di suggerirci quando ci sentiamo totalmente sopraffatti dagli eventi che ci sembrano macigni su di noi.

E, in conclusione, veniamo a quanto più ci riguarda nel qui ed ora.
Il rischio più attuale è rappresentato dal possibile gap tra chi riprende a lavorare o a dedicarsi ad altri impegni e chi, per perdita di lavoro, per assenza della scuola, per età avanzata, non ha la possibilità di tornare a vivere gli stimoli cha aveva prima. E’ probabile che in questo contesto questa sorta di “dislivello” possa essere percepito con disagio e possa essere associato ad un maggior senso di abbandono.
Cosa può essere utile? Che chi si trova nei ruoli più attivi riservi quanta più cura e vicinanza possibili verso chi si trova necessariamente in posizioni meno attive.

Se sentite di aver bisogno, potete chiamare il Numero Verde 800 334343, attivo h24: è il servizio attivato da Regione Veneto (alla risposta c’è un breve messaggio registrato, subito dopo risponde l’operatore). Un altro servizio è quello di Telefono Amico, attivo dalle 10 alle 24: 199 284284

Orlando Mastrillo
orlando.mastrillo@varesenews.it
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Pubblicato il 04 Giugno 2020
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