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Alberto Centinaio svela i “misteri” del Monastero del Carmelo

Alberto Centinaio e Alberto Garbarino hanno intervistato per la rivista Polis la priora della comunità carmelitana che celebra 70 anni - Uno spaccato degno di interesse sociale e non solo religioso

[pubblicita]   Alberto Centinaio "intervistatore" torna alla passione di comunicatore. L'ex sindaco democatico, già cofondatore del primo sito di informazione online "Altomilanese in rete", insieme a Stefano Quaglia, oggi si ripresenta con la rivista Polis e una intervista con la priora della comunità carmelitana di Legnano, a 70 anni dalla sua fondazione. 
«Un monastero –  leggiamo– esiste solo se è in relazione con la gente che gli vive intorno». Una presenza ecclesiale “silenziosa” e preziosa. «Gioia e fraternità sono la cifra della nostro modello di vita».
Un lavoro a quattro mani, con la partecipazione di Alberto Garbarino. Proposte da Gianni Borsa, pubblichiamo con piacere le considerazioni di madre Giovanna che svela una realtà troppo spesso poco considerata in città.


Quando la vita ci riserva grandi sofferenze e tutto sembra perduto, ecco che spesso la speranza rinasce e fioriscono esperienze nuove che lasciano un segno. Così è avvenuto durante l’ultimo conflitto mondiale quando, durante un bombardamento su Milano, la famiglia di Margherita Negri fu praticamente distrutta. Dopo aver elaborato il drammatico lutto, Margherita volle realizzare il sogno della sua vita ovvero entrare nel monastero delle Carmelitane di Milano. Tuttavia, poiché il monastero non poteva più accogliere altre vocazioni, le fu chiesto di pazientare e di rimanere a Legnano presso la famiglia Mocchetti, suoi lontani parenti. Grazie all’intercessione della cugina Orsolina Mocchetti, la famiglia dei noti industriali legnanesi decise di donare il terreno al fine di realizzare un nuovo monastero a Legnano in località Canazza (oggi via del Carmelo). I lavori, grazie anche a numerose donazioni, iniziarono nel maggio del 1948 e si conclusero l’anno successivo, con l’apertura della nuova comunità religiosa che avvenne solennemente il 7 maggio 1949.

Ricorre, dunque, quest’anno il 70° anniversario della fondazione del Carmelo di Legnano e in questa circostanza la nostra rivista ha voluto ricordare questa presenza così significativa per la città intervistando madre Giovanna, priora del monastero (attualmente le monache che formano la comunità sono 17). Ne emerge un quadro illuminante dal quale traspare nitido il ruolo e la missione di queste religiose, apparentemente isolate ed escluse, ma in realtà così presenti con la loro spiritualità e il loro esempio di vita.

Il mondo è molto cambiato da quando il monastero è stato edificato e da quando le prime monache si sono raccolte al suo interno. Viviamo oggi in una dimensione di vita accelerata, dove molte coscienze si sono spente e l’individualismo ha preso il sopravvento. C’è ancora posto, in questo nuovo mondo, per una vita monastica di clausura? Quale significato riveste?

"Ciascuno nella vita si interroga e cerca di dare una risposta alla domanda “Chi sono?”, “Da dove vengo?”, “Dove vado?”. E chi sceglie una vita monastica come la nostra, e si offre al Signore, lo fa con il desiderio e la speranza che il Signore si serva di questa vita donata per farti arrivare dove da sola non saresti mai potuta arrivare, e testimoniare col tuo vivere quotidiano, semplice e fraterno, la possibilità e la gioia di vivere liberi dal giogo del potere, dell’avere e del possedere. Certo i tempi sono molto cambiati. Le persone che si avvicinano alla vita monastica, oggi, sono molto diverse da come eravamo noi alla loro età, ed alcuni valori che per noi erano scontati ora non lo sono più. Penso, ad esempio, al valore racchiuso nell’impegnativa promessa di un “per sempre”. In passato si era certamente timorosi nel dichiarare che una scelta fosse “per sempre”, ma il contesto culturale intorno a te ti rassicurava e aiutava a prendere questo impegno. Oggi il contesto esterno è completamente mutato, il concetto di “per sempre” è più difficile da comprendere e anche la scelta di chi si avvicina alla vita monastica diventa quindi più difficile. Non di meno io credo che oggi (e forse oggi più che mai) ci sia ancora spazio per esperienze di vita come la nostra. Lo credo perché il nostro modo di vivere esprime la ricerca dell’umano più vero che abita in ciascuno di noi. Un umano che oggi è spesso soffocato e mortificato, sottomesso alle frenesie del vivere quotidiano e vincolato dalle esigenze crescenti di una società esasperatamente accelerata e caotica che non ti permette di riconoscerti ed essere quello che dovresti essere. Qui, invece, l’esercizio costante della distanza dalle cose, la semplicità, l’umiltà della rinuncia, il desiderio e la volontà di vivere nel rispetto reciproco sono condizioni che ti aiutano ad esprimere il tuo umano più vero".

Nella vita di clausura, l’estremo dono di sé, la rinuncia alla propria libertà per donarla al Signore, prende corpo e si materializza. Che messaggio lancia questo vostro dono così particolare a tutti noi che siamo all’“esterno”?

"Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la nostra scelta non va interpretata come una rinuncia o una limitazione alla propria libertà. Chi sceglie questo tipo di vita, in realtà, lo fa proprio all’opposto, per recuperare la propria libertà. Una libertà più vera. Decidere di conformarsi, in modo consapevole e voluto, ad una serie di regole e di norme non significa privarsi della libertà di scelta ma concentrarsi sull’essenziale e diventare liberi da tutti i condizionamenti cui siamo sottoposti e che ci danno la falsa illusione di poter disporre di noi e di muoverci in libertà. Le regole paradossalmente ti liberano: è un atto di fiducia onnicomprensivo, di abbandono estremo, senza condizioni, che ci viene chiesto di rinnovare ogni giorno ma che non rappresenta più una costrizione e, al contrario, stimola l’esercizio di una grande creatività nel fare cose che da sole non avremmo scelto di fare".

Per chi la guarda da fuori, la clausura viene spesso interpretata come uno spazio protetto, escluso dal mondo, dove si conduce una vita spesso idealizzata. Ma in realtà il monastero vive in un contesto cittadino e con la città si interfaccia quotidianamente. Ci può aiutare a capire meglio come vi relazionate con il mondo esterno e in particolare con la città?

"Un monastero da solo non esiste! Esiste solo se è in relazione con la gente che gli vive intorno. Altrimenti è un corpo estraneo, un’isola solitaria circondata da un mare di verde. Ogni monastero è una realtà di chiesa, deve essere sempre aperto, conoscere e comprendere ciò che si muove intorno a sé, nella città, nel Paese, nel mondo. E lo deve fare attingendo dai tradizionali e innovativi mezzi di comunicazione ma anche e soprattutto attraverso l’incontro e il dialogo individuale: con chi si siede in parlatorio per dare voce ai propri interrogativi, con i giovani, con le coppie di fidanzati, con chi deve prepararsi alla prima comunione o alla cresima. O ascoltando la voce dei parenti che vengono a trovarci e ci portano l’eco di una realtà ormai lontana ma anche i segni dei cambiamenti avvenuti. Ed è un rapporto che non è mai a senso unico. C’è sempre uno scambio tra l’interno e l’esterno. In ogni incontro ciascuno porta il suo sé, le sue esperienze, i suoi punti di vista, le sue intuizioni, ma coglie anche la dimensione unica del nostro vivere tra le mura di questa comunità: quel senso di gioia, di libertà e fraternità che sono la cifra della nostro modello di vita".

E cosa ci può dire in particolare sul tema della solitudine? Oggigiorno la solitudine viene considerata, dai più, come una condizione negativa e di sofferenza, da evitare a ogni costo. Ci può spiegare meglio come vivete questa condizione di solitudine all’interno del monastero? 

"La vita, all’interno del monastero, è scandita da impegni e attività le più diverse. Alcuni di questi impegni riguardano l’intera comunità, altri coinvolgono piccoli gruppi di sorelle, altri, infine, sono momenti in cui ciascuna di noi vive in completa solitudine. Ma per noi essere in solitudine non significa essere sole. È un essere sole fisicamente, questo sì, ma si tratta sempre di una solitudine abitata: nel nostro intimo, dentro ciascuna di noi, quando siamo sole è più che mai viva la presenza del Signore. Per noi il tempo della solitudine è in realtà un tempo privilegiato. Di intenso colloquio con il Signore. Un tempo per ascoltarti e per ritrovare la presenza del Signore che è dentro di te e con il quale costruisci la tua vita. All’interno del monastero, questa dimensione di colloquio è sempre e comunque presente, anche quando ci si trova in gruppo con le altre sorelle, ma è nei momenti di solitudine che essa si esalta e si vivifica. E sono convinta che, anche all’esterno, le persone dovrebbero valorizzare gli spazi di silenzio e di solitudine come occasioni per ritrovare se stessi e riattivare questo colloquio. La solitudine non si dovrebbe fuggire. Tutt’altro. Perché è nella solitudine che smetti di essere disperso e ritrovi le tue sorgenti, il tuo essere un tutt’uno, il tuo sentirti persona in quanto in relazione con l’Altro e non semplice individuo isolato".

Parliamo ora brevemente della “vita materiale” e di alcuni aspetti pratici nella gestione della comunità. Come ve la cavate con il denaro necessario al sostentamento del monastero? E com’è il rapporto con il cibo e con la cura di sé?

"Innanzi tutto occorre dire che noi non riceviamo alcun contributo dal Vaticano né altre forme di finanziamento. Questa condizione che potrebbe apparire, a prima vista, come un grave problema, rappresenta, invece, una grande opportunità. Quella di vivere in umiltà e imparare il valore della rinuncia. Col tempo siamo diventate esperte nel far quadrare i conti. Non solo amministrando oculatamente le piccole entrate che costituiscono gli attivi del nostro bilancio (le pensioni di alcune monache, i lavoretti cui ci dedichiamo, le offerte delle Messe e quelle dei nostri parenti) ma soprattutto riducendo al minimo le spese. L’energia elettrica la produciamo in casa con i pannelli fotovoltaici, gli abiti li realizziamo noi ed il cibo ci arriva facilmente, gratis o a poco prezzo, dall’esterno. Certo dobbiamo accontentarci: mangiamo spesso il cibo che sta per scadere che arriva dalla Caritas, dalle scuole, dagli oratori estivi o da altre comunità. Ci troviamo, di fatto, alla fine della filiera dei consumi. Ciò che per gli altri è un “avanzo”, per noi è una “risorsa”. E questo ci aiuta, come dicevo, ad apprezzare il valore della rinuncia. E a dare il giusto peso e significato alle cose intorno a noi. Il nostro atteggiamento verso il cibo, comunque, non è mai teso alla privazione o all’auto punizione. Sul piano della qualità, certo, dobbiamo accontentarci di quello che ci viene offerto, ma in termini di quantità non esistono forme di privazione. Potremmo dire che, con il cibo, abbiamo un rapporto di essenzialità, che ne esalta il valore intrinseco e la dignità. E analogamente, ciò avviene anche per il rapporto che abbiamo con il corpo e l’aspetto fisico. Si tratta di un insegnamento che ci è stato dato a suo tempo da madre Elisabetta, la quale sosteneva che l’umano che è in noi non andava disprezzato e che la cura di sé fosse, al contrario, un valore positivo. Lei soleva dire che la monaca come persona veniva prima della clausura".

Concludiamo parlando proprio di madre Elisabetta. Tutti gli anni, la sua morte viene commemorata con grande partecipazione. Che cosa ha reso questa vostra sorella così determinante per la vita di questo monastero? E che traccia ha lasciato?

"Nel ‘90, dopo la partenza di alcune sorelle, ci siamo ritrovate solo in 13 in un monastero che viveva ancora le dinamiche del pre-concilio: riservatezza assoluta, la vita come dono sacrificale di sé, la priora come arbitro delle relazioni . Elisabetta, in quel periodo, ha preso in mano le redini della casa e ha applicato, nel nostro piccolo gruppo, quello che il Concilio aveva suggerito: accentuazione della fraternità, dell’ascolto e del dialogo, rispetto al silenzio, maggiore attenzione alla parola di Dio rispetto ai santi. Soleva dire: ”prima il Vangelo, poi i santi, poi il Carmelo”. Ed è stato un cambiamento radicale: sono nate e si sono sviluppate nuove relazioni, più vere, più intense, più fraterne; ci si è aperte alla condivisione; le questioni personali hanno trovato ascolto in una persona cui riferirsi per ogni difficoltà. Una persona che aveva la straordinaria capacità di fare emergere da te l’inespresso e di leggerti l’anima con uno sguardo. Con lei non ti sentivi mai giudicata; diventava semplice, naturale e in qualche modo dovuto essere sincera, mostrare le tue fragilità e anche le tue meschinità. Elisabetta era in grado di aiutarti in questo percorso di scavo e sapeva far emergere da ogni sorella tutte le migliori potenzialità. Di più, aiutava le potenzialità di ognuna di noi ad interagire con le capacità delle altre sorelle, senza competizione o rivalità, a beneficio del bene di tutta la comunità e quindi di ciascuna di noi. Tutte hanno un ricordo, un bagaglio di fatti e avvenimenti, un legame affettivo molto grande nei confronti di madre Elisabetta: una riconoscenza per quello che ha fatto, per come ci ha aiutato a crescere e per il segno indelebile che ha lasciato in ciascuna di noi".

Alberto Centinaio – Alberto Garbarino

Marco Tajè
direttore@legnanonews.com
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Pubblicato il 12 Agosto 2019
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