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180 milioni per il sistema moda. “Premiata la visione non la richiesta di aiuto”

Lo stanziamento è fondato su un dossier realizzato dalla Liuc business school e dal centro studi del Sistema moda Italia. Serati (Liuc): “Analisi economica alla base delle decisioni politiche “

massimiliano serati docente liuc

Aver ottenuto uno stanziamento di 180 milioni di euro a sostegno del settore tessile abbigliamento e la proroga della cassa integrazione causa Covid è senz’altro un ottimo risultato. L’effetto più evidente, cioè lo stanziamento, rischia però di mettere in secondo piano l’aspetto più importante che sta alla base della decisione presa dal governo Draghi e dal ministero dello Sviluppo economico, ovvero le argomentazioni che hanno supportato quella scelta contenute nel dossier realizzato dalla Liuc business school in stretta collaborazione con il Centro studi del Sistema moda Italia. Se l’obiettivo del team coordinato dal professor Massimiliano Serati era sensibilizzare l’esecutivo sul destino di un settore cruciale per l’intero Made in Italy, non solo è stato raggiunto ma ha aperto una stagione nuova nelle relazioni tra politica e imprese.

Professor Serati, con questo risultato avete sdoganato un nuovo modo di fare lobby? «L’idea era di fare un’operazione diversa da quelle consuete, sostenendola in modo forte sul piano scientifico. Un anno fa abbiamo prodotto un lavoro che conteneva delle previsioni sull’impatto della pandemia, fatte con dei modelli statistici seri, che erano alla base di alcune proposte di policy costruite in modo rigoroso, con tanto di stima delle loro ricadute. Il dossier è finito sul tavolo di Draghi e del ministro Giorgetti ed è stato ben accolto. È stato successivamente presentato anche in alcune commissioni».

Che cosa insegna questo risultato?
«È la dimostrazione che si può fare attività di tutela e di sostegno dei vari settori con argomenti scientifici. Credo che l’analisi economica debba essere un supporto alla politica alta e in questo caso è accaduto. Abbiamo provato a dar vita a un modo di lavorare che possa essere replicabile anche in futuro: un’analisi seria del settore, importante per l’economia italiana, gli elementi su cui è importante intervenire e una stima accurata delle ricadute. Nel dossier c’erano ragionamenti anche di più ampio respiro che riguardavano il sostegno all’innovazione, gli strumenti per il reshoring delle produzioni delocalizzate, le nuove professioni e come costruire nuove competenze per la filiera. Insomma, era un’operazione ad ampio spettro. Nel buon esito del dossier forse ha inciso anche la presenza di questo presidente del consiglio, un uomo che sa bene cosa vuol dire motivare con argomentazioni scientifiche, e anche l’azione efficace del Sistema moda Italia. Sta di fatto che questo dossier è stato la leva per conquistare credibilità alle richieste del settore».

Siamo di fronte dunque a un cambio culturale nel rapporto tra imprese e politica?
«La novità è il metodo usato che ha messo insieme le istanze delle aziende e gli strumenti dell’analisi scientifica per dare sostanza e rigore alle legittime richieste del settore. È un segnale che va in una direzione precisa: basta soldi a pioggia, anche quando le risorse ci sono, come nel caso del Pnrr. Le risorse vanno indirizzate verso obiettivi strategici e produttivi che inneschino percorsi di sviluppo solido. Parliamo di un settore per noi vitale che esprime un indotto incredibile. È un tesoro del paese e come tale ha avanzato le proprie rivendicazioni in maniera rigorosa e costruttiva. Dal punto di vista scientifico è un orgoglio per la nostra business school e grazie alla sensibilità di Sistema moda Italia ne vediamo finalmente i frutti. È un concetto che ha valore in sé ed è il segnale che nel Paese si stanno sviluppando alcune sensibilità a tutti i livelli, istituzionali imprenditoriali e di rappresentanza. E se queste nuove sensibilità riescono a lavorare in sintonia forse ci aspetta una stagione interessante».

La filiera del tessile e abbigliamento ha subito negli ultimi trent’anni una metamorfosi profonda sotto i colpi della globalizzazione e della digitalizzazione. A che punto siamo di quella trasformazione?
«C’è un dato emblematico che dice molto rispetto a quella trasformazione di cui lei parla: secondo i dati Istat, il 14% delle imprese manifatturiere italiane che fanno attività innovativa sta in quella filiera. Ciò significa che l’idea di un settore dove conta solamente essere alla moda è l’idea della vulgata. Dietro c’è un lavoro straordinario di innovazione tecnica, sviluppo di talenti e anche una riorganizzazione della filiera con il rientro dall’estero di segmenti ad alto valore aggiunto nella catena del valore. Insomma, nel settore c’è movimento. Inoltre studiando le tabelle input-output dell’Istat, che rivelano quanto i settori siano collegati tra di loro, si nota che la filiera del tessile abbigliamento è quella che ha la maggiore capacità di attivazione di altri settori. Se quella filiera corre, allora corrono anche la chimica, la meccanica e tanti altri settori che subiscono la sua capacità di attivazione. Capacità che è lo specchio del lavoro profondo fatto dalle aziende del settore negli ultimi vent’anni».

Un giovane startupper di Busto Arsizio alla domanda perché il settore tessile avesse sofferto così tanto negli ultimi anni, ha risposto che i territori con una forte tradizione nel tessile, come Varese, hanno usato quel prezioso sapere sedimentato negli anni non come sostegno e trampolino verso il futuro, bensì come semplice àncora al territorio. Concludendo il ragionamento con una metafora: è come far crescere un albero solo nelle radici, anziché farlo svettare verso l’alto.
«La metafora dell’albero è molto suggestiva ed è una visione condivisibile. Il settore, soprattutto la parte più alta, per molto tempo ha curato essenzialmente la produzione senza preoccuparsi molto del trend di evoluzione degli scenari, di come cambiava la competizione globale e la digitalizzazione delle attività. Poi a un certo punto, trascinata dagli stimoli che venivano dalla parte bassa della filiera, in particolare dalle griffe, e costretta dalla minaccia che arrivava dell’estremo oriente, ha innescato una serie di azioni che hanno cambiato la logica del settore. Oggi si ragiona con un’estrema sensibilità agli scenari che vengono dall’estero, si è molto attenti a integrare nuove competenze e sensibili alle nuove forme di lavoro produttivo. È davvero diventata una filiera moderna in tutti i sensi».

Insomma, si è capito che la leva per competere non poteva essere solo il prezzo.
«Le aziende del settore da tempo hanno capito che devono lavorare sul valore aggiunto che mettono nei prodotti. C’è un fenomeno di nuove forme di integrazione orizzontale tra aziende del tessile che operano in partnership in settori contigui che fanno innovazione sui materiali e innovazione digitale per fare open innovation e mettere le competenze a sistema. Da queste esperienze vengono fuori produzioni originali e altamente competitive. Questa attitudine a ibridarsi è un segnale di maturità della filiera. È stato un alto grande travaglio culturale che ha portato a esisti di successo».

Rimane la questione della dimensione delle aziende del settore. La crescita dimensionale è ancora una sfida aperta?
«È un tema importante che emerge dalle analisi che facciamo, soprattutto quando parliamo di microimpresa che ha qualche difficoltà in più. Allo stesso tempo però osserviamo che nel mondo essere piccoli non è più davvero un elemento penalizzante, a patto che l’azienda operi secondo alcune pratiche. Se da sola non ha la forza per accedere al credito o di fare innovazione, allora deve farlo in stretta collaborazione con qualcun altro. L’ecosistema in questo senso è determinante e con esso il ruolo trainante delle imprese medio-grandi. Il contributo delle piccole diventa fondamentale nella misura in cui sono capaci di trovare ciascuna il proprio ruolo nell’ecosistema».

Che cosa bisogna fare per renderle più competitive?
«Se mancano le competenze tecniche specialistiche, i famosi tecnici per le fabbriche e gli impianti, si può lavorare in progetti di open education per formarli, mettendo insieme i patrimoni di competenze che già ci sono nelle piccole aziende. Si possono formare squadre di tecnici che operano anche parzialmente in condivisione tra più aziende. Più in generale, l’open education, così come l’open innovation e la finanza innovativa rendono le piccole aziende più competitive. Essere piccoli a quel punto diventa solo un vantaggio. Lo abbiamo già sperimentato durante la pandemia con la conversione di tante micro e piccole aziende del settore che hanno iniziato a produrre mascherine. In quesi casi non era solo l’agilità data dalle piccole dimensioni a favorire l’ingresso in un nuovo settore, ma era soprattutto lo straordinario patrimonio di competenze delle imprese. Tutto questo va supportato con interventi che difendano i piccoli da quelle insidie che dipendono dalla loro dimensione: la formazione del capitale umano, l’accesso all’innovazione, l’accesso al capitale di rischio. Lavorando su questi aspetti il tessuto di piccole imprese diventa un plus per il Paese».

Che ruolo hanno oggi le associazioni di rappresentanza nell’ecosistema produttivo?
«Uno dei luoghi naturali per fare ecosistema sono proprio le associazioni, oggi si parla molto di valore condiviso e le associazioni sono il luogo dove poterlo condividere, perché è lì che le aziende possono parlare tra di loro, confrontarsi con il territorio, a partire dalle università e dai centri di ricerca fino alle rappresentanze dei lavoratori. È in questo modo che si può portare avanti un progetto condiviso di sviluppo del territorio che abbia un valore economico e un valore sociale. Quando si raggiunge questa situazione di equilibrio tra chi produce e l’ecosistema, tra valore economico e valore sociale, hai creato clima ideale per fare le cose per bene».

Redazione
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Pubblicato il 17 Gennaio 2022
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