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Autismo: il rifiuto sociale

La fonte principale di stress per la famiglia non è più l’isolamento...

Continuiamo dopo lo scorso articolo il nostro approfondimento sull’autismo.

Il primo a descrivere la sindrome autistica fu Leo Kanner nel 1943, ritenendola una patologia neurologica causata principalmente da un inadeguato rapporto del bambino con una “madre frigorifero”, tipicamente donne della media e alta classe borghese, acculturate e spesso "in carriera", ma anaffettive. Per circa un ventennio questa ipotesi, oggi ritenuta scorretta, ha dominato la scena clinica internazionale.

Molti dei primi studi sull'autismo successivi a quello di Kanner si sono poi concentrati prevalentemente sul ruolo dei genitori, come se si fosse cercata in loro la causa (o la colpa) dei sintomi dello spettro autistico. Molti e diversi sono però i fattori osservati che possono contribuire allo sviluppo della sindrome, e comprendono sia fattori ereditari sia non ereditari. La comunità scientifica concorda sull’ipotizzare una causa di tipo multifattoriale, con elementi genetici e ambientali. È invece ormai completamente screditata una vecchia ipotesi sulla presunta causa vaccinale, avanzata da Andrew Wakefield, che si è rivelata poi una frode scientifica, in quanto lo scienziato avrebbe percepito un compenso in denaro per asserire la falsa evidenza di una correlazione fra il disturbo e l'assunzione del vaccino trivalente (contro morbillo, parotite e rosolia).

Al di là dell’eziologia dell’autismo la domanda che un genitore si pone è se dall’autismo si può guarire. Innanzitutto è bene sottolineare come siano numerosi e differenti i trattamenti rivolti all'autismo a causa dell'alta variabilità individuale, quindi non esiste un unico intervento specifico che sia valido per tutti allo stesso modo. Raramente è possibile ottenere la remissione totale dei sintomi. Si raccomanda un intervento precoce e intensivo, al fine di aumentare il livello di acquisizione del linguaggio, sfruttare al massimo il periodo utile per l'apprendimento del bambino e minimizzare le conseguenze comportamentali secondarie a un'inadeguata capacità di comunicazione.

E’ importante porre l’accento su come sia fondamentale accompagnare la famiglia con bambini autistici in un percorso di sostegno e di elaborazione del lutto di un figlio sano. L’indifferenza del bambino autistico verso i familiari, che hanno investito amore e dedizione sul loro bambino apparentemente perfetto, costituisce precocemente una vera tragedia affettiva: i genitori si sentono rifiutati da un bambino che non corrisponde ai loro sentimenti e che tuttavia non possono e vogliono lasciare. La vita familiare è ben presto sconvolta dai problemi di comportamento tipici del bambino autistico, soprattutto dagli episodi di auto o etero aggressività: nulla è più doloroso che assistere impotenti al dramma del bambino che si morde, si graffia a sangue, si picchia o batte la testa contro il muro, o che, portato con il cuore colmo di speranza tra i suoi coetanei li allontana a morsi e calci. Le stranezze del comportamento del bambino autistico nel migliore dei casi sono interpretate nell’ambito sociale come espressioni di maleducazione di cui il genitore è responsabile; anche la famiglia più unita e agguerrita si trova così a dover affrontare, oltre alle difficoltà di convivenza col proprio bambino, il giudizio, le critiche e l’insofferenza di vicini, parenti e amici della cui solidarietà avrebbero invece enormemente bisogno. La fonte principale di stress per la famiglia non è più l’isolamento o il comportamento del bambino, ma il rifiuto sociale.

La famiglia è il primo ambiente sociale in cui ogni bambino si trova a vivere: l’integrazione nella vita di famiglia è perciò il primo scopo da perseguire in un programma di riabilitazione e integrazione della persona autistica. Aiutare il bambino a sviluppare capacità interessi e relazioni nell’ambito familiare si traducono in un miglioramento della vita presente e futura della famiglia e del bambino stesso: il benessere dell’uno è indissolubile da quello dell’altra. Nessun genitore può assistere passivamente allo sviluppo del proprio bambino; un programma d’intervento dovrebbe non solo essere preparato tenendo conto della conoscenza profonda che ogni famiglia ha del proprio figlio, delle esigenze e dello stile di vita familiari, ma anche prevedere una partecipazione della famiglia stessa come partner essenziale nella preparazione ed esecuzione del progetto. A questo scopo sarebbe opportuno offrire alla famiglia un supporto individualizzato a partire dai suoi bisogni e dalle sue potenzialità.

Resto a disposizione per domande, chiarimenti, o per spunti su argomenti che desiderate approfondire.

Dott.ssa Federica Camellini
federicacamellini@libero.it

Marco Tajè
direttore@legnanonews.com
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Pubblicato il 20 Maggio 2015
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