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La “stalla” vittoriosa della Flora si racconta

"È un racconto che mette in discussione il concetto stesso di esperienza, ridandogliene significato, forma, inclinazione"

Riceviamo e pubblichiamo:

Scrivere una storia significa intessere minuziosamente tra loro elementi spesso eterogenei. Saperli incastrare alla perfezione, gestendone limiti e potenzialità, è opera d’arte. Quando un artista si mette all’opera, non fa altro che trasmettere e comunicare emozioni, sensazioni, idee. La storia di cui vi stiamo parlando, quella che ha come epico finale il quinto giro del 27 maggio, non può che essere una storia emozionante. Non può che essere un’opera d’arte.

È un racconto che mette in discussione il concetto stesso di esperienza, ridandogliene significato, forma, inclinazione. Non svalorizzandolo, ma scuotendone i delicati contorni, aggiornandone le applicazioni nel contesto di un Palio finalmente in movimento. Perché è inutile perdersi in grottesche pantomime: alle mani vergini e invise della Flora, a settembre, non avrebbe creduto nessuno. Ed è proprio su questo elemento che gravitano gli umori e le emozioni di ogni singolo personaggio di questa storia.

Ma per capire al meglio la cornice in cui inquadrare i nostri eventi, occorre partire proprio dal basso, da quel ventre ardimentoso che nel Palio è il popolo di una Contrada. Quest’ultimo, riflettendo la sua natura di brulicante ed operoso formicaio d’intenzioni appassionate, ha saputo offrire alla sua commissione corse l’entusiasmo e la motivazione di cui quest’anno, più di altri, sarebbe stato impossibile fare a meno. È stato soltanto grazie a queste fondamenta spesse e robuste che una grande squadra ha potuto formarsi, trovare spazio ed agire. Ma se andate cercando un segreto, una ricetta, una regola, sappiate che la vostra risposta sta nell’unità d’intenti. Non tanto nella mera potenza della macchina, ma nella minuzia con cui i singoli ingranaggi interagiscono tra loro. Proprio per questo risulta davvero difficile trovare un singolo protagonista, invischiati come si è nel dedalo d’eventi che è la trama di un racconto come questo.

Forse possiamo cominciare dai barbareschi, dal più esperto Paolo Montrasio sino alle nuove leve Fabio Pessina e Marta Luraghi. Insieme hanno rappresentato uno di quegli ingranaggi tra i più fondamentali, ma che spesso non si vede riconosciuto il giusto merito. L’esperienza garantita di Paolo, affiancata dalle appassionate e frementi mani dei ben più giovani Fabio e Marta, è stata la spalla salda su cui appoggiarsi umanamente e tecnicamente.

Come in ogni storia che si rispetti, anche qui non sono mancati gli antagonisti. Antagonisti che a volte ti aspetti ed altri che invece riescono a sorprenderti. Ma a mente lucida, quando ormai il motore si è raffreddato e la corsa è finita, non si può che render merito anche a loro per il ruolo diligentemente ricoperto. Perché il buono esiste solo in rapporto al cattivo, l’uno non prescinde dall’altro e ne deve saggiamente accettare ed inquadrare l’esistenza. Chi poi sia davvero il buono soltanto la storia potrà deciderlo.

L’ambiente di Contrada viene spesso affiancato a quello familiare, concettualmente simile, per il senso d’appartenenza capace di stimolare ai suoi membri. È ancora più incredibile quando una famiglia vera, sanguinea, arriva quasi a fondere il proprio sangue e la propria identità con quello della Contrada. I fratelli Antonioli, Massimo e Roger, sono un ottimo ritratto d’amor di Contrada. Stabilirne i ruoli in quelli di addetti corse alla Provaccia sarebbe quasi limitante, visti gli sforzi profusi ovunque ve ne risultasse bisogno. (foto di Stefano Panizza)

È anche una storia di prime volte e di esordi. E la storia di un esordio è per forza di cose fatta di speranza, di credibilità, di aspettative. Emozioni e sensazioni non possono che diffondersi nel corpo in impeti d’energia e di passione. Pensando al Palio di quest’anno, forse uno degli esordi oggettivamente più importanti è stato quello di Leonardo Sidoti e Antonio Primerano, gli addetti corse al Palio vincenti alla prima. Non tanto per la vittoria in sé, ma proprio per lo scossone revitalizzante che sono riusciti a dare ad un Palio forse schiavo delle sue stesse regole, della sua sistematicità, del suo campanilismo.

Nell’epicità di un racconto come questo, si fa fatica anche ad inquadrare un singolo eroe. Forse il primo che merita di essere citato è proprio Gavino Sanna, il fantino fuori dagli schemi, la variabile indipendente. Esecutore di una corsa perfetta, senza sbavature, frutto di un lavoro e di un impegno reso possibile soltanto dall’estrema professionalità dell’atleta, dalla serietà dell’uomo, dal cuore dell’amico. Al suo fianco Valter Pusceddu, che ha saputo offrire a Gavino la preparazione tecnica e mentale che non tutti i fantini possono vantare di avere. Ma sarà forse lo stesso Gavino a voler concedere l’occhio di bue a Genarmoly, la macchina perfetta. Primo su tutti, primo per nove giri, primo indiscusso. È stato lui a sfoggiare al Mari una marcia impareggiabile, la classe del fuoriclasse, l’eleganza che in pochi possono permettersi. Questa storia non può che finire col cuore di tutti che si stringe intorno a lui, che rientra in stalla, forse ignaro o forse no, mentre per le vie di Legnano impazza la gioia di un’intera Contrada.

Antonio Primerano

Redazione
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Pubblicato il 07 Giugno 2018
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