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Giorno della Memoria: Storia di un Internato militare italiano (IMI)

La storia di Adriano Pasquetto, sottotenente ventenne partito "volontario" in Albania e finito prigioniero di guerra in Germania...

Adriano Pasquetto 
Storia di un Internato militare italiano (IMI)
(Sottotenente 32° Reggimento Fanteria 2° Brigata 3° Compagnia Sussistenza)


Essere un ragazzo negli anni ‘40 non deve essere stato molto facile. Mio padre era uno di loro, spiritoso, intelligente, che amava gli studi e terminata la ragioneria si è iscritto all’università. Tanti progetti. Il progetto che sicuramente non aveva nemmeno in mente era di finire in guerra e invece… 

Parte “volontaria” la leva del ‘21
Il 18 febbraio 1941 sul Corriere della Sera un articolo di fondo annunciava che “la leva del ’21 si era offerta volontaria per andare in guerra”. Anche per mio padre, nato il 1° novembre 1921, arrivò la cartolina militare e, dato che era iscritto all’università, venne obbligatoriamente intruppato tra i futuri ufficiali. Il 28 febbraio era già alla Scuola Ufficiali a Verona nel Battaglione Universitario del 32° Reggimento Fanteria, sezione Carristi. Uscì dall’accademia col grado di Sottotenente. Avrebbe potuto essere inviato all’Autocentro di Torino, ma, avendo problemi di vista, per la miopia, venne invece inviato, il 3 settembre 1941, a Spoleto, 2° Brigata, 3° Compagnia Sussistenza. 

8 settembre 1943
Il 2 agosto 1942 viene imbarcato da Bari per Durazzo, in Albania. Dal 28 agosto è al magazzino viveri di Scutari e dal 16 settembre è nominato consegnatario, cioè responsabile, dello sperduto magazzino militare viveri di Puka, nel distretto di Scutari. E proprio lì, in Albania, a Puka, si ritrova l’8 settembre 1943 tra quei monti e quelle foreste con altri commilitoni, soldati ed ufficiali, isolati dagli alti comandi, lontano dall’Italia, attorniati da partigiani albanesi ostili ed ex-alleati tedeschi ancora più ostili e ben armati. L’unico ordine che ricevono è di portarsi alla più vicina stazione ferroviaria e fare come verrà detto loro dai tedeschi. Non hanno alternative ed eseguono. 

Dall’Albania all’Ucraina
Vengono disarmati, stipati su carri bestiame piombati, senza cibo né acqua, con un secchio per vagone per i bisogni corporali, e inviati a Leopoli (Lemberg), in Ucraina, in quella che veniva chiamata “Cittadella”, un forte riorganizzato come lager (Stammlager o Stalag 328).

Diventano IMI: Internati Militari Italiani, non “prigionieri di guerra” e quindi non tutelati dalla Convenzione di Ginevra né dalla Croce Rossa, né, peraltro, dallo Stato italiano del sud (non riconosciuto dai tedeschi) né dalla Repubblica Sociale Italiana del nord, che li considerava traditori. Gli ufficiali, fotografati e schedati come “criminali di guerra”, vengono separati dai soldati e avranno un destino leggermente diverso. Fame, freddo, interminabili appelli, continue richieste da parte dei tedeschi di collaborare alla RSI (Repubblica Sociale Italiana) o alla Wehrmacht, o di trasformarsi in lavoratori civili nel Grande Reich. Ai soldati questa proposta è stata fatta una volta sola e chi non ha aderito spontaneamente è stato costretto al lavoro coatto, agli ufficiali invece il lavoro è stato risparmiato fino alla fine del 1944. Come contropartita sono stati maggiormente vessati ed affamati per costringerli alla collaborazione. 

Dall’Ucraina alla Germania
L’8 gennaio 1944 partono da Leopoli, sempre in carri piombati, alla volta di Wietzendorf (Offizierlager o Oflag 83). All’arrivo li accolgono quattro cadaveri impiccati e lasciati penzolare dalle torrette ed un cartello che troneggia all’entrata: “Kriegsgefangenlager”, che significa “campo per prigionieri di guerra” ma che viene letto da tutti i lombardi come “Crist, che fam da làdar”, Cristo che fame da ladri! 

La fame
E la fame è stata qui ancora peggiore: una rapa da foraggio, prima cotta, poi cruda su richiesta dei medici militari italiani per avere più vitamine, un pezzetto di pane nero di segale (e di segatura) umido, pesante, alto un dito e non più grande di un pugno, ogni tanto un pezzetto grosso come un pollice di un formaggio tipo gorgonzola ma molto più puzzolente, tanto che alcuni quando veniva distribuito dovevano uscire dalla camerata perché si sentivano male all’odore, un pezzetto di uguali dimensioni di un patè grigiastro che chiamavano margarina, dal sapore indefinibile, di cui mio padre, quando ha saputo dell’esistenza dei forni crematori, ha sempre avuto atroci dubbi riguardo alla vera natura degli ingredienti. Una dieta da 1300 a 1000 calorie giornaliere, ben al di sotto del minimo di sopravvivenza a riposo. Mio padre mi raccontava che alla latrina per defecare ci andavi una volta alla settimana o ogni dieci giorni e in un attimo era tutto fatto: non avevi quasi niente da espellere… La fame era tanta in tutti i lager ma a Wietzendorf i Tedeschi stavano facendo un esperimento scientifico: con quante calorie di rapa può vivere un uomo? 

Sete e freddo
La sete era un tormento perché non veniva distribuita acqua a sufficienza per tutti e anche per lavarsi era un problema: le pompe distribuite per il campo erogavano poca acqua non potabile ed in inverno gelavano, come gelava tutto, compresi gli uomini. Mio padre ricordava il ferragosto 1944 con l’ordine “adunata con cappotto”. Figuriamoci in inverno! Le temperature erano normalmente di 15-20 gradi sotto zero. Nelle baracche di legno marcio, fatiscenti, con le assi delle pareti sconnesse da cui entrava aria, c’era al centro una stufa a legna e carbone. Spenta. Non veniva fornito alcun combustibile per alimentarla. C’erano stalattiti di ghiaccio lunghe anche 30 centimetri che scendevano dal tetto sui letti dei prigionieri. 

Nelle baracche
L’arredamento della baracca era costituito da un tavolo, qualche sedia, letti a castello a tre piani che non erano altro che tavolacci di legno uguali a quelli che si trovavano nei lager tipo Auschwitz o Dachau o Mauthausen. Normalmente non c’era pagliericcio e quei pochi erano di paglia o trucioli marci ed erano un covo di pulci e cimici. Avevano in dotazione un’unica coperta, che mio padre, posto sul castello più alto, era costretto a tenere di notte sulla faccia anche in estate perché dalle travi, vicinissime, tanto da costringerlo a dormire supino in quanto su un fianco non aveva lo spazio per starci, dalle travi di legno gli cadevano continuamente in faccia le cimici. Pidocchi e topi completavano lo zoo del campo. E un cagnolino, il fedele compagno del comandante tedesco del campo. 

Nessuna adesione alla RSI
Tutto questo, le malattie (tifo e tubercolosi le più diffuse), le lusinghe, le minacce, le umiliazioni, le punizioni individuali o collettive con sospensione della posta, diminuzione del cibo, sequestro di cappotti e coperte, trasferimento a campi di punizione, le uccisioni e i ferimenti per scuse varie di sabotaggio o disobbedienza agli ordini servivano per spingere gli ufficiali all’adesione alla RSI. Ma a Wietzendorf nessuno degli ufficiali si piegò: scelsero tutti di rimanere piuttosto a marcire e morire di fame nel lager.

Alessandro Natta nel suo libro “L’altra resistenza” – che si può trovare in biblioteca o integralmente su internet – scrive: “L'internato militare era nel giudizio dei tedeschi, ancor prima dell'esistenza della repubblica di Salò, una figura nuova, una via di mezzo tra il prigioniero di guerra e il perseguitato politico, e nei suoi confronti si stabilì una misura intermedia fra il trattamento riservato ai primi e quello di cui furono vittime i secondi. Noi abbiamo avuto una sorte diversa da quella dei prigionieri dei campi di sterminio, dei lager politici, anche se occorre dire che non vi fu una differenza nella sostanza ma solo nel grado di intensità della persecuzione. Quando i nazisti decisero di usare contro di noi la rappresaglia feroce era ormai troppo tardi. L'ordine fu scritto e firmato da Goebbels. La scadenza: 30 marzo 1945. Ma non venne eseguito”.

Mio padre ha scelto di non collaborare perché era in quel momento e in quella situazione l’unica resistenza che poteva opporre, l’unico modo per aiutare la sua patria, la sua famiglia, i genitori e le sorelle sfollati da una Milano continuamente bombardata ed ospitati dai nonni a Legnano, insieme agli zii, nella grande villa – che ora non c’è più – tra la via Cesare Cantù e la Ugo Foscolo. 

Per non morire intellettualmente gli ufficiali nel campo si sono organizzati con una biblioteca di più di mille volumi, con conferenze e corsi delle più varie discipline tenuti da professori universitari, con spettacoli di varietà o testi classici di teatro, in cui protagonisti di spicco erano Giovannino Guareschi e Gianrico Tedeschi. Mio padre ha imparato nel lager la lingua francese e l’inglese. 

Poi, le prime avvisaglie… il 22 ottobre 1944 scrive a casa: “Quanto alla salute mia è sempre ottima, per fortuna, e quanto al morale vivo sperando. Una cosa mi angustia: che, data la mia giovane età, non è improbabile che debba diventare libero lavoratore. Nulla però di sicuro su questo punto, solo un mio timore, seppure con qualche fondamento”. E il 18 dicembre: “Ora una brutta notizia  te la dò io: oggi parto da questo campo perché sono stato inviato al lavoro nella zona di Amburgo”. Non ha potuto scegliere, altri hanno scelto per lui; hanno scelto lui, come accadeva al mercato degli schiavi. 

E’ arrivato ad Amburgo subito dopo il grande bombardamento che l’aveva distrutta quasi completamente. Le case non esistevano più, muri verticali privi di tetto, di pavimenti, si ergevano spettrali tra cumuli di macerie. Là in altro, al secondo piano, un chiodo nella parete ed un quadro ancora appeso: il ritratto di Hitler… Pareva una beffa! 

Alla costruzione delle V2
Mio padre viveva ancora in un lager (Gemeinschaftslager 490903/74 Worthdamm 35) ma era costretto a lavorare, su turni diurni e notturni, con altri ufficiali nella fabbrica bellica Blomm & Voss dove costruivano parti delle V2, i famigerati missili che erano in grado di raggiungere con precisione Londra una volta lanciati dalla Germania. Le V2 venivano in seguito assemblate nelle fabbriche sotterranee tipo quella tristemente famosa del lager di Dora-Mittelbau, dove sfruttati erano ancora internati militari italiani insieme a deportati politici. 

Il coraggio di sabotare
Mio padre era alla fine della catena di montaggio e doveva semplicemente fare un buco con un trapano verticale in un punto ben preciso di un alettone della V2. Si sono accordati per boicottare la produzione, creando piccole imperfezioni che avrebbero reso inutilizzabili o difettosi i vari pezzi. Se a mio padre arrivava un prodotto già rovinato faceva un buco perfetto, da manuale, se gli arrivava invece ben lavorato faceva il buco appositamente sbagliato. I tedeschi si infuriavano per la produzione rovinata e minacciavano la fucilazione, ma gli ufficiali con una gran faccia tosta rispondevano loro candidamente che erano tutti impiegati o studenti, che non erano abituati a lavori manuali, che facevano del loro meglio, e che guardassero, i tedeschi, quanti buchi perfetti che erano stati fatti, se poi uno veniva un po’ storto… Con questo sistema mio padre e i suoi compagni hanno boicottato la produzione, facendo uscire dalla fabbrica solo un dieci per cento di prodotto utilizzabile e riuscendo nel contempo a non farsi ammazzare. 

Il ritorno a casa
Mio padre è tornato, ma non era più quello di prima. Non ha perso la sua intelligenza, la sua allegria, la sua capacità di scorgere il bene anche dove è più difficile, anche nei tedeschi che lo avevano trattato in quel modo, ma ha perso tanti chili e con quelli la capacità di concentrazione, la memoria: non è più stato in grado di sostenere gli esami universitari ed ha abbandonato uno dei suoi sogni. E per poco non ne ha abbandonato un altro: quando sono nata era felice ma io sono nata “per sbaglio”, mio padre prima, a priori, non mi voleva, non voleva aver figli perché… mi amava troppo… aveva paura, mettendomi al mondo, che potessi un domani soffrire quello che ha sofferto lui, quello che ha visto e che ha saputo in seguito che altri hanno sofferto. 

Che dire? Grazie, solo grazie, papà…

Renata Pasquetto, Anpi Legnano

La biografia di Adriano Pasquetto con immagini
https://www.youtube.com/watch?v=Tw_5vu3YR24

Redazione
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Pubblicato il 25 Gennaio 2015
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