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Il bombardamento dell’Alfa Romeo nel 1944 raccontato da un legnanese

L'ing. Dario Redaelli il 20 ottobre 1944 era presente quando le bombe caddero anche sulla scuola milanese "Francesco Crispi" - il racconto sulle pagine di Polis...

La testimonianza di un legnanese, l'ing. Dario Redaelli, presente a Milano il 20 ottobre1944, quando vennero bombardate l'Alfa Romeo e la scuola "Francesco Crispi" è stata documentata nell'ultimo numero della rivista "Polis". Si tratta di uno dei tragici fatti che sconvolsero la città di Milano, tristemente noto anche come “Strage di Gorla” o “Piccoli martiri di Gorla”. Si trattò di un articolato bombardamento aereo degli Alleati – volto a piegare le forze nazifasciste – che colpì, oltre ad alcune fabbriche e case, la scuola elementare “Francesco Crispi” di Milano, sita appunto nel quartiere di Gorla, provocando la morte di 184 bambini. Di seguito il racconto dell'ing. Redaelli, che ringraziamo, insieme agli amici di Polis, per la disponibilità.


Sul bombardamento dell’Alfa Romeo di Milano, avvenuto il 20 ottobre 1944, «è stato scritto molto, sia da persone che lo hanno vissuto, sia da alcuni storici e giornalisti: ovvie le differenze di vedute. Altri hanno attinto dalle documentazioni rese disponibili più tardi dagli archivi militari, specie Usa, ricche di dati e fotografie, ma fredde, mute e prive di legami tra loro. Ho perciò deciso di raccontare anche la mia esperienza che, nel tempo, ha avuto un seguito non prevedibile ma, come vedrete, curioso e interessante». È l’ing. Dario Radaelli, classe 1927, che è stato tecnico e poi dirigente Alfa Romeo dal 1943 al 1986, a consegnare a Polis Legnano questa sua personale testimonianza in occasione del 70° anniversario di quel terribile bombardamento. Dal 1981 Redaelli è Maestro del Lavoro e promotore dell’associazione Ttsll (Testimonianze tecnico storiche del Legnanese).

Di seguito proponiamo – in versione quasi integrale – lo scritto che ha offerto a Polis.

Un giorno come altri. «In quel periodo svolgevo un’attività inconsueta presso la Scuola apprendisti dell’Alfa Romeo, determinata dalle esigenze del momento e per la quale una apposita area era stata adeguatamente predisposta. Avendo ormai fatto una certa esperienza, mi era stato assegnato il compito di contribuire all’insegnamento di un mestiere ai reduci dai fronti di guerra (la quasi totalità dalla campagna di Russia), mestiere solo da “sedentari” essendo essi tutti gravemente menomati fisicamente.

Eravamo abituati agli allarmi che ci avvisavano del probabile attacco aereo, ma il lontano ricordo di quello del 1943 era ormai quasi svanito e nessuno si preoccupava più di tanto. Pertanto quel fatidico 20 ottobre 1944, al primo segnale di allarme, io e un reduce, di nome Crippa e che si era affezionato a me, decidemmo, vista l’ora, di andare alla vicina mensa aziendale per il pranzo. Mancava poco a mezzogiorno e, mentre camminavamo, vedemmo colonne di fumo alzarsi, come seppi dopo, in conseguenza del funesto bombardamento del quartiere Gorla. Capimmo che quello poteva essere un segnale premonitore ma, pur stando all’erta, non andammo nella torretta-rifugio.

Entrammo alla mensa, ma poco dopo sentimmo un concitato vociare all’esterno; uscimmo e vedemmo chiaramente, nel cielo di uno splendido azzurro, una formazione di bombardieri B-24 Liberator, proveniente da Nord e ancora lontana ma sicuramente diretta verso di noi. Ci accingemmo allora a uscire dal perimetro dello stabilimento, ma Crippa, che era monco della gamba destra, doveva usare una stampella e non poteva muoversi sollecitamente. Io tentavo di aiutarlo, ma era tutto inutile, era quasi immobile. Mi urlò ripetutamente: “vattene tu che sei giovane… vattene tu che sei giovane”.

Io, a causa dell’amicizia e del desiderio di aiutarlo, esitavo ma non mi rendevo conto del tempo che passava, e lui insisteva; ebbi la netta impressione che, dopo la triste esperienza in Russia e per la consapevolezza della sua precaria condizione, fosse diventato fatalista e non gli importasse più di morire. A un certo punto mi spinse con colpi di stampella nella schiena per convincermi e io tentai di allontanarmi, ma ormai era troppo tardi; percorsi forse qualche decina di metri e raggiunsi l’uscita di emergenza nord, normalmente chiusa. Dava sull’orto di guerra che si trovava a un livello più basso di oltre un metro.

Il cielo si oscurò. Malgrado la paura, osservai la formazione degli aerei che era quasi sopra di noi e vidi, se ben ricordo, sei gruppi di sei bombardieri ciascuno, un po’ distanziati tra loro.

Mentre correvo per allontanarmi, vidi un segnale luminoso emesso dall’aereo di testa, il primo gruppo sganciò le bombe che, durante la caduta, luccicavano e generavano un rumore impressionante: il mio cervello ne fu sconvolto. Le prime bombe caddero proprio a nord dello stabilimento, dalla parte dell’orto, cioè dove mi trovavo io, e fui scaraventato giù tra la verdura. Lo sgancio delle bombe si ripeté altre cinque volte con un certo intervallo di tempo che mi sembravano un’eternità, col cuore in gola… in un fragore che ossessionava. Subito il cielo si oscurò, sembrava una classica giornata milanese di fittissima nebbia, ma di colore grigio, giallo e rossastro a causa dei muri sgretolati; era tanto buio che non mi riuscì di ritrovare Crippa (fortunatamente lo rividi qualche giorno più tardi).

Un’ora dopo, diradata la “nebbia”, rientrai e vidi l’impressionante distruzione in ogni dove. Sul tetto della mensa, alto forse una ventina di metri, vedevo le biciclette che prima si trovavano nel vicino deposito, scaraventate fin lassù dalle esplosioni. Molte persone vagavano in ogni direzione, come inebetite. Non sembravano nemmeno intenzionate ad allontanarsi da quell’inferno. Qualcuno raccontava (a chi?) quel che aveva visto, e riferiva di morti e feriti, ma confusamente a causa del trauma subito.

Uno strano personaggio. Quando, dopo tanti indugi, decisi di andarmene, ritornai alla Scuola apprendisti, che era li a due passi. Scesi nello spogliatoio, recuperai i miei effetti personali, uscii dallo stesso portone di prima e attraversai l’orto di guerra che arrivava fino a via Papa; oltre si trovava il prato del Tiro a segno, che non era recintato. Giunto sulla strada vidi all’orizzonte una seconda formazione di bombardieri. Data l’alta quota di volo, ebbi l’impressione che avesse lo stesso obiettivo e cercai di affrettarmi con l’intenzione di ripararmi in una delle buche dalle quali venivano lanciati i piattelli. Al rumore provocato dal primo sgancio delle bombe questa volta mi buttai a terra, come mi era stato insegnato dai reduci; tentai più volte di avvicinarmi alla buca più vicina (non ricordo se le vedevo, sapevo solo che c’erano), ma invano: ero come paralizzato e guadagnai solo poche decine di metri.

Sullo stesso prato c’erano qua e là anche dei blocchi di cemento cubici da mezzo metro di lato; su uno di questi, tranquillamente seduto, stava un signore che mi sbalordì: era elegantissimo in un abito nero tipo frac, con bombetta, papillon e guanti in una mano. Roba da “prima” alla Scala… ma non era un sogno! Ormai gli ero abbastanza vicino e lui cercò di rassicurarmi dicendo: “non si preoccupi, non le accadrà nulla. Stia qui vicino a me. Vedrà che non succederà nulla”. Frastornato dal precedente shock non gli credevo, ma intanto non riuscivo in nessun modo a procedere, neanche di un passo. In effetti quell’incursione colpì l’Isotta Fraschini che, in linea d’aria, si trovava a poche centinaia di metri dall’Alfa Romeo. Ecco perché fui tratto in inganno sul vero obiettivo, mentre l’anonimo personaggio se ne stava sempre tranquillo. Di certo lui sapeva tutto, ma come potevo immaginarlo?

Questo fatto è sempre stato un dilemma per me ma, forse, più di sessant’anni dopo, penso di aver capito come possono essere andate le cose.

Mi incamminai per tornare a casa, a Legnano. Come? A piedi, 26 chilometri, ma con una complicazione: il famoso “Pippo”, l’aereo ricognitore che da tempo teneva tutti sulle spine anche di notte. Volava ad alta quota e non riuscivo a vederlo, ma la paura di essere individuato mi prese (infondata, direste voi ora a mente serena, ma provare per credere) e decisi di camminare nascosto da siepi o boschi rasentando le marcite. All’imbrunire, sentendomi più tranquillo, mi portai sul Sempione e chiesi un passaggio a un camionista che mi abbreviò il cammino. Arrivai a casa a notte fatta, mi sentivo un miracolato.

Inizialmente i morti contati furono più di 60 e le cronache si sono fermate a questa cifra. Dopo qualche tempo però, con la ricostruzione in corso, si procedette a liberare una buca, delle dimensioni di un ampio locale e posta al termine sud del tunnel che dava accesso a una delle torrette-rifugio, che era stata completamente riempita dalle macerie crollate durante il bombardamento. Lì avevano trovato riparo alcuni operai che, purtroppo, non avevano raggiunto la vicinissima torretta-rifugio, e vi sono rimasti sepolti fino al ritrovamento. Non facevano parte della prima conta: totale più di 80.

Amara scoperta. Facciamo ora un bel salto nel tempo. Nel 1967, dopo un periodo di preparazione per l’adeguamento delle vetture Alfa Romeo alle nuove norme Usa sull’inquinamento da autoveicoli, mi reco nei laboratori Epa (Environmental Pollution Agency), all’epoca situati a Ypsilanti, Michigan, per effettuare le prove di certificazione ufficiali. Nulla di speciale; molto spazio, anonimi fabbricati industriali e altrettante spoglie aree che li circondano, apparentemente abbandonate.

Nel corso di queste mie missioni, ho conosciuto molte persone, ed ex aviatori americani, tra queste un nostro efficientissimo collaboratore, l’ing. Donald Black. Con lui intrattengo ancora rapporti d’amicizia con scambi di ricordi e notizie. Tra queste (email di agosto 2011), una che ha attirato la mia attenzione: i sopracitati laboratori Epa di Ypsilanti erano situati in fabbricati non più utilizzati del Willow Run Airport, cioè uno degli impianti dove venivano assemblati i quadrimotori B-24 Liberator (quelli del bombardamento, per intenderci).

Il continuo scambio di informazioni umane e tecniche con l’amico Donald lentamente mi ha aiutato a dare una spiegazione sul motivo della presenza di quel signore in abiti da “prima” alla Scala che avevo visto durante il bombardamento del 1944. Ebbene, quel signore vestito elegantemente inviava le coordinate di puntamento ai bombardieri!

Non posso trarre una conclusione certa, ma nel mio ambiente di lavoro già allora circolavano voci di strani dispositivi, non meglio precisati, aggeggi oggi considerati rozzi, ma adatti per trasmettere segnali semplici come: X= tot metri più avanti, Y= tot metri più indietro, Z= tot metri più a sinistra, W= tot metri più a destra, e così via. Questi avrebbero potuto facilitare l’operazione normalmente affidata, all’epoca, ai dispositivi di puntamento Sperry, o similari, allora in uso. La mia è solo un’ipotesi, ma troppi fattori concomitanti, per esempio gli sganci successivi, opportunamente distanziati nel tempo e sempre più precisi, me la fanno ritenere abbastanza valida.

Una cosa è certa: sia nel caso dell’Alfa Romeo che in quello dell’Isotta Fraschini, i bersagli furono colpiti con precisione…».

Dario Radaelli

Redazione
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Pubblicato il 27 Novembre 2014
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